Guerra: la più comune e frequente e chiara FORMA del Patriarcato Imperialista.

2 Ottobre 2022

Guerra: la più comune e frequente e chiara FORMA del Patriarcato Imperialista.

Virginia Woolf, ne Le tre ghinee (1938), si pone la domanda che ci poniamo oggi: “Cosa si può fare per fermare la guerra?” e, come noi, risponde che non lo sa, ma certo qualcuno la pensa, la prepara, ne calcola costi (in danaro e vite umane) e guadagni, infine la dichiara perché sa di essere ascoltato e ubbidito. Qualcuno che ha il potere di formare la cultura della guerra, l’economia per e della guerra. Alla Guerra, continua Virginia, come alla politica, alla cultura, insomma alla mentalità maschile, le donne sono estranee (la “società delle estranee”). Punto.

Ma le sono davanti fotografie di guerra, bambini straziati. La guerra la invade, sebbene non sia “in suo nome”. Dunque qualcosa va fatta. Bisogna lavorare sulla cultura, sull’istruzione. Ma siamo lì, attenzione: “I fatti riportati non dimostrano forse a sufficienza che l’istruzione, la migliore del mondo, non insegna a odiare la violenza, bensì a farne uso? Che, ben lungi dall’insegnare la generosità e la magnanimità, essa rende la gente così ansiosa di tenersi stretti i propri privilegi, la grandezza e il potere, da essere disposta a usare sistemi ben più subdoli della violenza quando le si chiede di farne partecipi altri? E non sono forse la violenza e il senso del possesso due sentimenti connessi molto da vicino con la guerra? (…)”.

Duque, l’estraneità delle donne non significa essere assenti, altrove, distratte. E’ essere estranee a quella cultura che però ricade su tutte e tutti. E conclude: Pensare, pensare, dobbiamo. In ufficio, sull’autobus, mentre (…), mentre (…), mentre (…). Non dobbiamo mai smettere di pensare: che civiltà è questa in cui ci troviamo a vivere?“

Niente come la guerra e la sua cultura così orrenda è il risultato di una struttura/cultura patriarcale e imperialista. Dobbiamo ripeterlo fino a che non entri nella zucca delle donne, anche in quelle che si ostinano a fare le “imparziali”, e nella zucca degli uomini, almeno in quelli che dicono di essere contro la Guerra.

Contro la Guerra bisogna costruire una Cultura della Pace, che non è debolezza, acquiescenza, indifferenza, e nemmeno scelta di campo. Al contrario è il coraggio e la fermezza dell'onestà intellettuale, del rispetto e della volontà di mettere al primo posto la vita, il vivere, e dunque un mondo un poco più giusto.

Riguardo a questa guerra, terribile, sventolata e minacciata nelle sue implicazioni più orrende (e non distinguo bene da chi, nel senso che certamente è frutto della mente perversa di tutti i Patriarchi della terra che giocano tra loro a “buttare ‘a petrella e nascondere ‘a manella”), io dunque so di non sapere come fermarla, come non ho saputo fermarne altre, sebbene, assieme di milioni di altre e altri, abbia firmato appelli e organizzato e/o partecipato a manifestazioni, marce per la Pace, seminari, (da ragazzina contro la guerra del Vietnam, fino al 2001, quando produssi come Araba Felice il cd Guerra e la Carovana di poesia e Musica contro la guerra, che percorse tutta l’Italia, e alla quale aderirono migliaia di poete e poeti, musiciste e musicisti, attrici e attori). Ma questa misera consapevolezza non mi acquieta. E so troppo poco per immaginare una proposta, se non domandare ripetutamente di affrontare il conflitto attraverso la parola, l’accordo, la mediazione per poi giurarsi di lavorare per la Cultura generale della Pace, della convivenza, della serietà, della fine di ingiustizie colossali, di egoismi e volontà di Potere, di Comando, che mi fanno orrore.

Quanto avrei desiderato (e quanto sarebbe servito) vedere un segno di pietà, da parte di giornalisti/e e opinionisti/e (ai politici e alle politiche non penso proprio) al pensiero della propria inadeguatezza a riferire dell’infanzia distrutta e della miseria imposta, un barlume di preoccupazione per le popolazioni che, nella parte più debole e maggioritaria vivono e vivranno giorni e mesi e anni di disperazione, di lutti e di ferocia, un momento di esitazione per interrogarsi dove fosse andato a finire il proprio lavoro, la ricerca, l’indipendenza del pensiero, della lettura dei fatti. Avrei accettato anche narrazione di parte, ma che fossero almeno un poco preoccupate di essere il più possibile eque, che accettassero il dibattito con apprensione e senso dell’urgenza.

Desiderio impossibile, il mio, perché, prima ancora delle Guerra guerreggiata, c’è la diffusa cultura di guerra, cioè la vocazione alla supremazia assoluta, alla prepotenza, alla violenza, all’egoismo e alla stupidità. E ciascuna guerra (oggi ce ne sono molte per il mondo) non solo porta alle popolazioni distruzioni, lutti, impoverimento, assuefazione alla violenza e alla cattiveria, risentimento (una volta si diceva: perdita di ogni verginità), ma in più produce un progressivo abbassamento di umanità (noi però abbiamo la donnità!) e dei residui di onestà intellettuale in intellettuali e in coloro che ancora sono definiti mezzi di informazione.

E allora, ciò a cui tutte e tutti dovremmo dedicarci, con impegno e senza deroghe, è lavorare contro la Cultura della guerra. Tutti i giorni, in tutte le occasioni. Lavorare contro quella visione monocolore che ci propinano in tv tutte le sere attraverso film e telefilm ignobili, dibattiti pseudo politici, trasmissioni dove per contratto le persone devono urlare una contro l’altra, o sui giornali, in romanzi, alcuni anche interessanti, che però rappresentano e dunque fissano il cambiamento antropologico che stiamo vivendo, contro quella che ha radici profonde nelle nostre società, che diffonde la necessità di essere competitivi, riveriti, di essere gli eccellenti, i primi della classe, i più potenti, più belli, più corteggiati, i vincenti, e che è anche dentro di noi, e porta, magari in discussioni tra gente comune, al furore di affermare il proprio io, il proprio punto di vista, il proprio presunto diritto ad avere la meglio, e che usa iperboli ed estremizzazioni, bugie, per avere “ragione”, per uscire da ogni contrasto come vincitore. Quella che non insegna il rispetto, l’ascolto, la dignità. Quella che tortura gli animali per allenarsi alle torture sugli umani, come scrive il grande scrittore Coetzee, quella che è il prolungamento della Politica, come afferma Foucault. E dell’economia capitalista e maschilista, aggiungo io. Quella che distrugge il pianeta, non lo rispetta, non lo ama, si limita a sfruttarlo per fare soldi. Che ignoranza, che improntitudine, che egoismo miope e distruttivo! Io non capisco.

Non capisco come la guerra non generi sgomento tra gli stessi potenti che la promuovono e che anzi fanno i calcoli tra costi e benefici (i propri), né impone loro di fermarsi a riflettere.

Noi sì ci fermiamo, noi amiamo la gioia, la bellezza, la gentilezza, noi siamo “cicale operose”, e dunque, contraddicendo apparentemente ciò che ho affermato sopra circa la nostra impossibilità a eliminare le guerre, c’è forza in noi, che però dobbiamo crescere, capire che alla Guerra è collegato tutto il resto, e che dobbiamo imparare a scegliere. A cominciare da chi frequentiamo, da chi votiamo, dai libri che leggiamo, dalla scuola che desideriamo e costruiamo, dalla sanità che ci serve, dal sistema ecologico che distruggiamo, dalla salvaguardia dei nostri corpi e della bellezza che esprimono, dalla cura delle parole.

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