Eravamo anche così
Da Le amiche di Carla, Filema, Napoli, 1999
Mi ricordo quel Natale. Quello quando andai a Parigi proprio da Massimo che mi aspettava al treno e appena io scesi, mentre ancora mi guardavo attorno tra quel mare di teste e io sentivo la mia che rimbombava per la stanchezza e per quella cagnara tutto intorno, quelle braccia mi sollevarono e quell'odore, quei peli, quella barba e quella sciarpona e insomma ero stata avvolta da lui così grande, bello e un po' ingrassato. C'erano tutti quegli amici nella casa, qualcuno già lo conoscevo e ci fu quel ridere e quel giocare, quel brindare e poi quell'andare in giro proprio come fossi una turista: "e se no che sei?" mi gridava Massimo all'orecchio e mi abbracciava. E poi a quel loro bar incontrammo quegli altri due e uno disse a Massimo "sei tornato?" e io la sera gli chiesi "ma scusa, non stai sempre a Parigi?" e lui parlava e scherzava e qualcosa rispondeva, ed io "ma come? anche a Napoli sei venuto?" e insomma nel letto mi sentivo piccola e avevo quel pugno attorno al cuore, quell'oppressione tra cuore e stomaco. Il che vuol dire esattamente che è come se scoppiasse una piccola bomba in pancia e tu senti che si fa un vuoto che ti da quella sensazione che sei sola e hai voglia di lasciar perdere tutto e andartene. Ma poi lui mi chiese "che c'è?", mi disse "dai Rossa", e poi "sapessi che felicità, ti prego, ti prego" e voleva dire: "ti prego, non rovinare questo poco tempo, tu sai che passa, sai che è poco", e io gli buttai le braccia al collo e ci baciammo e lui mi stringeva e mi accarezzava e diceva "Rossa Rossa", ed io lo baciavo, lo accarezzavo e dicevo "Massimo Massimo". Poi lui entrò e mentre era lì e andava su e giù con tutta la dolcezza che esiste in questo mondo e intanto mi guardava con quella ruga tra gli occhi e i riccetti che gli spuntavano sul collo e dietro le orecchie e quelle sopracciglia così nitide e quegli occhi teneri e accidenti un po' tristi, e insomma eccetera eccetera, anche io lo guardavo e non riuscivo a non piangere e dicevo pure "tesoro, amore mio, ti voglio" e cose del genere, con quella voce che se ci penso mi viene da ridere. Per darmi un contegno. Ora.
E poi ricordo quell'altro Natale. Quello che stavamo in campagna da certi amici e lì avevo incontrato anche Carla e quando lo raccontai a Nina lei fece quegli occhi dispiaciuti "a saperlo..." disse, ma tanto non ci veniva lo stesso credo, e insomma quell'anno che, tra bottiglie e bottiglie e bottiglie di quel vino buono che facevano loro, si discuteva tutti di scelte metropolitane e scelte "campagnole", di politica e agricoltura, di Marx e di Siddharta, di Cina e di India, e però tutti erano un po' in crisi e nessuno se la sentiva più di dire, come pure aveva fatto fino a poco tempo prima, "è così", a un certo punto tutti a gridare "dai Napoli, cantaci qualcosa", e io "non so cantare", e loro "dai, sei di Napoli, no? e allora..." e allora ci mettemmo a cantare io e Carla interrompendoci continuamente un po' per tutto quel vino un po' perché davvero io sono una schiappa e Carla manco ci scherzava, un po' perché ero troppo felice di tutti quei visi e del mio e ci guardavamo tutti e io e Carla ci abbracciammo mischiando, si dice così?, lacrime e risate, perché certe volte la felicità e il dolore sono così mischiati che...
Così finì che ci mettemmo a cantare tutti insieme, a urlarci che eravamo meravigliosi. E mentre cantavamo sentii i cani abbaiare e il rumore di quel motore che si avvicinava e uscimmo a vedere chi era che arrivava così tardi, perché ormai era quasi mezzanotte ed era il trentuno dicembre, e ognuno diceva "scommetto che è questo o quest'altro", e io guardavo quegli occhioni della macchina che si arrampicava su per la collina e avevo portato da Napoli bengala e bengalini, tric trac col fischio e anche le stelline per i bambini, e c'era uno pronto ad accendere e altri con le bottiglie in mano, e uscimmo tutti fuori a vedere e io avevo le mani gelate sprofondate nelle tasche dei jeans, quelli che mi andavano sempre un po' larghi ma che dopo tutto quel mangiare e bere quasi non ci respiravo, e uscimmo fuori a vedere e io trattenevo il collo e il mento nella sciarpa e vidi come in un film che da quella macchina usciva proprio quella faccia e poi quelle spalle e poi quelle gambe si srotolavano e tu proprio tu venivi a cercarmi gli occhi e quando li trovasti, subito, quando li trovasti questi miei occhi fu come se tutto si fermasse.
Come avevi fatto, Massimo, a sapere dov'ero, io proprio non te lo chiesi quella notte. Quella notte? quell'alba, quel giorno e quell'altra notte ancora e quando tu quella mattina dicesti "ciao, amore, ora devo proprio andare", neanche te lo chiesi perché arrivavi e perché ripartivi. Come mi bastava quell'amarti. E grazie che dopo nulla più mi bastò, o forse un niente: che uno avesse qualcosa, una qualunque, quel gesto, quei riccetti, quel sorriso, e mi sembrava che fosse te, che tu fossi tornato. Per un momento. Quanti denti sorridenti, quante mani comprensive, quante spalle. Le tue mai più. Perché proprio quella seconda notte, a un certo punto ti cercai con la mano e non c'eri nel letto. Allora mi avvolsi nella coperta e uscii a cercarti immaginando di trovarti, che so?, romanticamente fermo alla finestra a guardare la notte, e invece la prima cosa che notai fu lo scatto delle mani, quel trasalire del tuo corpo, quelle gocce di sudore sul labbro proprio sotto il naso.
Così iniziò. Io dissi "ma sei scemo o cosa?" e tu rispondesti che chissà che mi credevo, non è nulla, Rossa, è solo che sono stanco. "Sono sempre Massimo" aggiungesti, e allora io mi avvicinai a quella finestra a guardare io la notte e poi mi voltai "senti..."
"No, aspetta. Aspetta Rossa, ehi Rossa, aspetta. Ti ricordi, di', ti ricordi quel film, quello di Costa Gravas? non quello, come si chiamava?, L'orgia del potere, l'altro, sì, L'amerikano? Ti ricordi? -io faccio sì con la testa ma intanto lo guardo e sono soprattutto stupita: stupita che capiti a me, a quel Massimo lì, a quello che veniva ai balletti quando eravamo ragazzini- Ti ricordi che a quella scena del cortile dell'Università, quella dove suonano gli altoparlanti uno alla volta, cosa suonano?, Comandante Che o cose del genere, e i poliziotti vanno e buttano giù un altoparlante, e allora ne parte un altro, e allora tutti i poliziotti a rompere quell'altro, e allora un altro continua, e poi un altro e un altro, insomma a questa scena e poi a quell'altra, quando i poliziotti uccidono quel ragazzo, ti ricordi che tu avevi le lacrime agli occhi?"
"Mi ricordo -mormoro io e davvero quelle parole mi fanno tornare nella saletta buia, piena di fumo, di quel cinemino scalcagnato- mi ricordo, ma che c'entra? -e forse già capisco- ma che c'entra? Senti"
"Aspetta. Nel buio ti guardai e ci stringemmo le mani".
La sua voce è impastata e lui ha perso il filo, ma io, io accidenti, lo so quello che vuole dire, così mormoro "mi ricordo" e davvero sento come allora quell'angoscia che si fa strada e mi da un senso di sconfitta.
"A me non veniva da piangere, Rossa, solo rabbia. Rabbia mi veniva e fu allora che decisi proprio"
"Ma cosa? Cosa, Massimo?"
"Lo sai. Poi Parigi e là...tante cose. Questo conta. Ricordati: questo conta"
"Ma che c'entra questo? Che c'entra con questo" e faccio un gesto a indicare quelle mani.
Così iniziò. Tu poi andasti via e io, questo l'ho capito dopo, io fui codarda donna di pezza che non ti fermai, non ti schiaffeggiai, non ti obbligai a tornare con me a Napoli, perché io non volli capire, perché io pensavo sempre che era impossibile che fosse vero, che non poteva essere che quel Massimo avesse niente a che fare con la morte, l'autodistruzione e tutte queste cose. Perché io pensavo che sì, piangevamo di delusione, ma lo sapevamo, tu lo sapevi, che gli sciacalli questo aspettavano, per questo avevano lavorato. Io non volli capire e nemmeno quando Nina mi guardò seria e mi abbracciò, dopo che a Napoli eri tornato ma quanto cambiato, ed io dicevo certo che passa perché un compagno queste cose le supera perché ha dentro un obiettivo e non può non credere a niente. Mi abbracciò anche Carla perché la pensava proprio come me, e ora questi imbecilli me l'hanno fatta fuori raccontando tutte queste stronzate.
Solo tantissimo dopo, quella notte a Miseno, quando io urlavo "mi stai dicendo che loro hanno vinto, che proprio tu gli dai i soldi, che proprio tu compri la loro merce, che proprio tu, tu che sai, tu che sei tra quelli che loro hanno deciso di eliminare, e che quando lo avranno fatto non ci sarà più nessuno che gli sputi in faccia, tu, proprio tu" e poi dicevo "facciamo così e così" perché non ce la facevo a vederti sempre più distrutto, e dissi anche "questo è egoismo, Massimo, a me non ci pensi? non mi vuoi bene?", e tu mi guardasti "Gesù, Rossa, come sei piccola", solo allora capii.
Oddio, che vergogna, perché per me ci sono stati altri anni di allegria. Ed io ora quelli vorrei raccontare, di quando uscivo con le mie amiche e quasi soffocavamo dalle risate che ci facevamo, ma come posso? come posso raccontare di quegli altri anni di allegria se mi ricordo invece di più la fine dell'allegria che in quegli anni c'è stata? Se mi ricordo, se mi viene alla mente?