Scrittrici (1998)

25 Novembre 2020

                                    Scrittrici

(lavoro svolto per Napoli e la Campania nel 900 a cura dell’Istituto Croce e dell’Università di Napoli, in più volumi in corso di pubblicazione –che però è stata interrotta)

 

Premessa.

Nel 1929 Virginia Woolf pubblica Una stanza tutta per sé, lo straordinario saggio che riprende, modificate e ampliate, le due conferenze su “Donna e romanzo” che Virginia aveva tenuto, l’anno prima, in due College femminili[1].

Punti centrali del suo discorso, per quel che qui interessa,  sono: 1) le donne hanno una collocazione sociale svantaggiata rispetto a quella degli uomini, ma hanno anche interessi propri, esperienze proprie, un proprio punto di vista che si manifesta sempre, dunque anche quando si guardano intorno, leggono, scrivono; 2) se vuole scrivere romanzi (e Virginia intende “poesia” nel senso più ampio e proprio del termine) “una donna deve avere denaro e una stanza tutta per sé”, cioè una donna (ma anche un uomo) deve avere autonomia economica, autonomia di sguardo e di giudizio, possibilità di raccoglimento e di elaborazione, libertà di parola e con le parole;  3) affinché la scrittura delle donne (e degli uomini) sia un atto di libertà, chi scrive deve essere libera (libero) non solo da problemi economici e da difficoltà che oggi definiremmo di “scarsa accettazione sociale”, ma anche da risentimenti e da tesi ideologiche[2].

La citazione di Virginia serve a fissare una griglia nella quale collocare le opere qui presentate: tutte le scrittrici, anche del passato, che citerò, sono donne che riescono, sia pure attraverso mille difficoltà, a procurarsi lavoro intellettuale come professione, e che riescono a dare forma, all’interno di quello che io chiamo campo d’ambiguità,[3] alla propria immaginazione, al proprio sapere, alla propria esperienza, al proprio punto di vista. Ma la citazione di Virginia serve soprattutto a mettere in campo alcuni punti preliminari.

Virginia ci ricorda che a sottolineare il genere di chi scrive sono stati gli uomini, i quali, come per tutte le differenze, non solo hanno stabilita la gerarchia tra le diversità, ma hanno letto (e definito) le diversità a modo loro. Virginia sostiene che è necessario per le donne, anche nella scrittura, impossessarsi di tale differenza e leggerla dal proprio punto di vista. Virginia coglie la complessità del leggere le scritture delle donne.

Da una parte, infatti, per “leggere” un’opera non si può non collocarla nel contesto che le è proprio (e dunque bisogna ri-conoscere lo scenario nel quale nasce, le citazioni e i riferimenti a cui allude), e assumere quel contesto come parte integrante del testo. Il che significa essere capaci di ri-conoscere il rapporto tra punto di vista, sguardo,  corpo e lettura/scrittura del mondo (le modalità della accoglienza e della rappresentazione da parte del soggetto), cioè ri-conoscere il  fare poietico. Comprendere che il contesto fa parte del testo e che tra testo e autore-autrice (ma anche tra testo e lettore-lettrice) non c’è un prima e un dopo, significa  riconoscere la diversità della scrittura femminile e della sua tradizione[4]

D’altra parte, opera di poesia è quella che testimonia la libertà assoluta della scrittura: in questo caso, la differenza femminile-maschile, come qualsiasi altra differenza, pur restando tale (proprio restando tale), non ha importanza per ciò che riguarda il “grado” della qualità della scrittura, diventa ininfluente nel giudizio critico. Ma attenzione: per comprendere questo sublime livello, bisogna che chi legge (e già chi scrive), abbia assunto, una volta per tutte, la nozione di scritture di genere. E non solo: abbia assunto, sperimentato, verificato, che il sistema letterario, il macrotesto letterario a cui convenzionalmente si fa riferimento, è costruito su  canoni a sé funzionali, cioè parziali, non neutri.

E’ ormai nozione comune che lo scrittore sia “parlato” dal linguaggio che usa, che cioè lo spazio creativo di uno scrittore muti a seconda di ciò che succede attorno, del sistema linguistico, della moda, delle scoperte scientifiche, degli eventi politici e sociali, delle guerre, eccetera (restando comunque fondamentale la sua rielaborazione e la non casualità delle sue scelte),  e questo perché le arti, la pittura, la musica, la scienza, gli avvenimenti politici, la cultura di un’epoca insomma (per come é conosciuta dall’autore), entrano nell’opera e fanno la lingua che quell’autore usa. Creano il suo linguaggio. Creano il suo stile, cioè quel modo particolare di scrittura che l’autore elabora per sé, mediando tra socioletto e idioletto, tra tradizione, canoni stabiliti, continuità, uso e innovazione, particolarità, scarto. Ciò che ancora si stenta a comprendere é che lo spazio creativo delle scrittrici é diverso: la percezione della realtà, delle scoperte scientifiche, degli avvenimenti pubblici, dei fatti culturali, dei dibattiti politici o intellettuali, e dunque la tensione e le modalità per “dare forma” alla propria percezione (e la stessa autonomia del segno), per le donne sono diverse. Le cose stesse, scelte per la propria attenzione, quando non coincidano con tematiche privilegiate dagli scrittori, non testimoniano semplicemente di contenuti altri dai consueti, ma indicano come alla percezione femminile della realtà, quelle e non altre risultino degne di nota: sono quelle le esperienze memorabili che vanno raccontate. Dunque, a parte il fatto di possedere, specie nel passato, un quotidiano diverso, una scala di valori diversa e un immaginario nutrito da miti propri, oltre che da quelli a loro comunicati, le donne hanno vissuto e recepito a loro modo (e, all’interno di questo, ciascuna a suo modo) gli eventi pubblici che nel frattempo facevano i pensieri, le convinzioni, le idee e la lingua degli scrittori.

A leggere correttamente le scritture delle donne lungo l’arco di un dato periodo (in questo caso quello dalla fine dell’800 a tutto il Novecento, in Campania) assistiamo alle trasformazioni, alle articolazioni, ai ripiegamenti di un percorso inedito e fertile di  suggestioni. Percorso che ha un suo procedere autonomo, che accoglie, dal suo punto di vista, tutto ciò che gli serve (dunque anche le presenze maschili) e che a tratti fortemente si intreccia con l’altro percorso, quello che riteneva se stesso unico, centrale, complessivo e onnicomprensivo, a tratti  se ne distacca. Così comprendiamo come non si possa non mettere in discussione il sistema letterario, i canoni, l’immaginario che si possiedono riguardo non solo la presenza e la produzione femminile, ma riguardo la presenza e la produzione maschile, i rapporti, le tipologie sociali di una intera società.

Questa lettura di genere, che qui definirò eccentrica non in ossequio al vecchio “centro” ma per utilità di enunciazione, è una lettura che (come abbiamo notato per la scrittura) sposta non solo l’attenzione su oggetti altri dai consueti, ma sposta il punto il punto di vista. Leggere è scrivere, e anche per chi legge vale quanto detto per chi scrive. La lettura è eccentrica nel senso che legge opere fuori centro, quelle delle scrittrici, ma anche nel senso che, nelle opere degli scrittori (e di molte scrittrici), accogliendo il testo, assume il punto di vista dell’oggetto (eccentrico) e gli da la forza di essere soggetto, sia pure a volte sconfitto o sceso a patti.

Così scopriamo che la soggettività femminile nella scrittura (che porta innovazioni forti nella tradizione) si esplica a più livelli:  mettere al centro, introducendola come protagonista, una donna[5],  disegnare uno scenario dove la relazione tra donne, sia pure diverse, crea un clima, un’atmosfera e permette una grammatica che rompe lo schema in o e in i  aprendo il suono della pagina in a e e  riappropriandosi della parola detta (cioè del suono della parola e della voce), che é parte del linguaggio del corpo.  Ancora, la soggettività femminile si esplica con l’affrontare delle tematiche “trasparenti” per lo sguardo dello scrittore (e del lettore), dando visibilità non solo ad esse ma ad un punto di vista inedito e cosciente di sé che dunque abbraccia la visione del mondo: é da qui che nascono i grandi libri di denuncia della propria condizione, dei comportamenti maschili, dei conflitti tra i due generi, ma anche dei guasti per tutti (es. la guerra, la violenza...) e anche da qui  nascono i grandi libri di felicità e di gioco, di libertà. Va anche aggiunto che la capacità affabulativa femminile, soprattutto per il passato,  non si poggia sulla meravigliosità delle avventure (“l’esperienza memorabile” dei viaggiatori, dei cacciatori, dei guerrieri) ma su quella della immaginazione che pone al centro il rapporto individuo-mondo. In questo modo le scrittrici, attraverso la fantasia e il sogno, legato al quotidiano, il quotidiano trasfigurano a volte per allontanarsene ma spesso per tornarci sopra, forti di una immaginazione, di un desiderio che possa trasformarlo. Questo é il nucleo forte della soggettività femminile nella scrittura. Soggettività che è facilmente rintracciabile nei testi delle scrittrici qui presentate. Sono i testi, infatti, che autorizzano le considerazioni fatte e che si faranno, sebbene in queste pagine non ci sia l’opportunità di portare avanti l’analisi testuale che dia ragione di esse.   Non tornerò più su queste precisazioni (che mi sarebbe piaciuto dare per scontate), delle quali ho avvertito la necessità per offrire una corretta chiave di  lettura del presente lavoro, e rimando, per ciò che riguarda punti strettamente teorici chiarificatori del mio procedere, alle Note e alle segnalazioni Bibliografiche.

 

Qualche altra breve considerazione generale: tutte queste scrittrici mostrano una forte sensibilità nei confronti dei problemi e della ricchezza culturale della nostra terra, dando prova di una sorta di meridionalismo molto interessante, per niente autoreferenziale, nostalgico o populista, ma inteso  come fiducia nella capacità di recupero e di valorizzazione di identità al fine di una relazione forte con gli altri paesi. Molto viva era, ed è, infatti, nelle scrittrici, l’attaccamento alle radici, alle tradizioni popolari con le quali le donne hanno una dimestichezza molto forte anche quando appartengano a classi privilegiate[6]. Per tutte vale quanto è stato notato da altri riguardo la produzione maschile, e cioè che è difficile riferirsi ad una “cultura campana”:  Napoli, per molti motivi, si accampa nella Regione come centro di produzione e di consumo a tal punto che è rarissimo trovare cenni sui “Campani” (come avviene per i Lombardi, i Veneti, i Piemontesi, i Toscani, i Calabresi, i Siciliani e così via) e tanto  meno sulle “Campane”. Le ragioni storiche, politiche, culturali, che spieghino il salto da definizioni precise e circoscritte (Napoli, i Napoletani, la così detta napolitudine...) alle dilatazioni (il Sud, i Meridionali, eccetera) sono tante e non è mio compito ora ricercarle: mi limito a confermare che anche per le scrittrici ci troveremo di fronte al fatto che Napoli, con le sue case Editrici, i suoi giornali, la sua cultura, è punto di riferimento di attività di tutta il Meridione, e, in certo senso, diventa metafora dell’attività di un territorio molto ampio. Va sottolineato che, in più, sebbene le scrittrici, lungo l’arco del 900, provengano da varie zone del territorio, la produzione letteraria femminile era, ancora fino a pochi anni fa (e ora ?), ampiamente e profondamente penalizzata e che se scrivere era una pratica diffusa tra molte donne di media-alta cultura e sicura condizione economica, era il riconoscimento della professionalità che stentava ad arrivare. Dunque, a maggior ragione, le donne dovettero “andare in città”, cioè vivere Napoli come obbligato capoluogo culturale. Spesso però, e anche questo va annotato, si spostarono (e continuano a spostarsi) in altre regioni, in altre città.

Nel mio lavoro di ricognizione sulla presenza della produzione femminile nella nostra Regione, sono partita, per ciò che riguarda il passato, dai dati, cioè dai testi editi in Campania[7], per risalire poi, quando sia stato possibile,  alle autrici e alla natura del circuito culturale in cui esse si muovono. Operazione questa che privilegia il dato editoriale come segno della cultura di un territorio. Ho ritenuto utile e significativo suddividere, inevitabilmente schematizzando, la produzione femminile in Campania in più periodi : la produzione tra la fine dell’800 e i primi del 900, il primo Novecento, dagli anni ‘30 agli anni 70, da questi ai giorni nostri. Dei quattro periodi, ho privilegiato i primi tre, perché la mia scelta è quella di contribuire a restituire storia e tradizione (la ricchezza e i limiti della storia e della tradizione) alle donne (e agli uomini) di oggi, al fine di turbare la memoria che esse stesse possiedono e legittimare un’altra memoria, un’altra tradizione.

Mi auguro che questo lavoro solleciti ulteriori indagini sull’intera produzione femminile in Campania, tanto da imporre studi monografici su ciascuna scrittrice, completamente riletta e collocata in uno scenario completo, che, va detto subito, ci vorrà del tempo per ricostruire. Eppure, già nel leggere queste pagine, bisognerà disporsi ad uno scenario nuovo, sebbene appena abbozzato, differente dal consueto (cioè da quello nel quale si muovono scrittori, poeti, studiosi, scienziati, eccetera). Bisognerà cercare di immaginarsi ciò che le scrittrici vedono, ciò che le scrittrici guardano. Nei loro sguardi c’è il contesto noto (scrittori importanti, giornalisti affermati, eventi pubblici di rilievo) ma c’è anche il mondo popolato da figure femminili, da tensioni che prendono il cuore femminile, da interessi, da comportamenti, da affetti, da problemi e da passioni che nutrono l’immaginario femminile, a partire dal vissuto familiare, dalle esperienze di vita e di cultura fino a ciò che le scrittrici vedono nella città, nella strada, nei viaggi, negli incontri, e fino ai libri che leggono, alla musica che ascoltano, eccetera, fino ai discorsi degli uomini e alle loro rappresentazioni.

Anche il pubblico[8], femminile e maschile, è nello sguardo delle scrittrici e fa parte dello scenario: il pubblico femminile delle scrittrici, abbastanza folto, è composto, prevalentemente,  da donne che si sentono in qualche modo rappresentate da chi scrive[9], mentre tradizionalmente devono convivere unicamente con personaggi femminili creati dalla fantasia maschile. Il pubblico femminile, sollecitato dai testi delle scrittrici, deve così fare i conti, da una parte, con ciò che delle donne si sa e si dice (ciò che gli uomini raccontano di loro), dall’altro con ciò che esse stesse vivono. Anche il pubblico femminile vive nel campo d’ambiguità : da una parte l’immaginario che la cultura maschile ha creato e che ha influito sulla mentalità anche delle donne e dall’altro la realtà delle cose, l’immediatezza del sentire. Le figure femminili, appartenenti all’immaginario creato dalla letteratura, sono un obbligato punto di riferimento anche per le scrittrici : con questo immaginario e con la propria esperienza, le scrittrici si scontrano e si incontrano, in questo immaginario collettivo devono collocare le loro storie, mediando con ciò che hanno l’urgenza di rappresentare.

Dunque, lettrici e scrittrici fanno i conti con un “doppio” : da una parte ciò che del mondo si racconta (la visione, il punto di vista, i temi, la scala dei valori) e che ha inciso sul proprio stesso sentire, e dall’altra ciò che ciascuna di esse vive nella propria vita, nella propria esperienza sentimentale, artistica, intellettuale e politica. E’ la visione del mondo, è l’oggettività delle cose e dello sguardo, prima ancora dell’oggettività letterale, che in questo modo viene messa in discussione.

Bisognerà anche riflettere, già nel leggere queste pagine, sul fatto che il femminile, già molto prima del 900 era presente, visibile, in Campania,  faceva parte del panorama, direi, e a sua volta era produttore di cultura in quelle arti dove il corpo, il gesto, la voce, venivano immediatamente recepiti. Per esempio, la cultura popolare meridionale (intendendo con questo anche parte della tradizione intellettuale e artistica) vede da sempre in campo donne protagoniste a cui dedica grande attenzione. E’ abituata alla visione dei “corpi”[10]. Vedremo poi come nella letteratura  contemporanea uno degli elementi comuni, quasi a tutte le scrittrici, è questo ritornare nella memoria alla ricerca delle radici, degli spazi dell’infanzia e della fanciullezza: in essi campeggeranno con assoluta preminenza le figure femminili, le relazioni tra figure femminili.

Questa forza della figura femminile, alla quale gli autori da sempre (si pensi a Viviani, a Edoardo) tributano rispetto, creando grandi personaggi femminili[11], è centrale nelle opere delle donne, ma da esse viene articolata e, non limitandosi più all’unico aspetto simbolico (della Donna, della Madre, della Grande Peccatrice) assegnato al femminile dalla tradizione maschile, si dispiega nelle molteplici sfaccettature delle individualità delle donne, delle quali vengono rappresentate le relazioni, i caratteri, gli atteggiamenti, le fragilità, le centralità.

Infine, vale la pena di sottolineare come a Napoli esistano da sempre profonde relazioni tra le protagoniste, le quali si conoscevano, si frequentavano se contemporanee, si studiavano l’una l’altra se appartenenti ad epoche diverse. Senza risalire molto nel tempo,  si pensi alla presenza di intellettuali, nel 1700, come Giuseppa Eleonora Barbapiccola, Maria Angela Ardinghelli, Orsola Benincasa, oltre a Eleonora Pimentel De Fonseca e alle tante gentildonne di illustri famiglie come la Pignatelli, o di poete che scrissero e pubblicarono a Napoli. Dei primi anni dell’800, si pensi a personaggi rappresentativi, spesso al centro di salotti intellettuali, come Maria Raffaella Caracciolo, Carolina Cosenza Decio, Maria Giuseppa Afan De Rivera, Cecilia De Luna Folliero, Maria Giuseppa Guacci Nobile, Laura Beatrice Oliva Mancini, Maria Adelaide Amendolito Chiulli, Enrichetta Caracciolo Forino, Teresa Filangieri... E certo a Napoli doveva esserci un certo fervore e una certa at­ten­zione da parte del pubblico, se nel 1870 viene stampata, prima della traduzione della Mozzoni, l’opera di Stuart Mill, La soggezione delle donne tradotta dall'inglese per Giustiniano Novelli. Con un'appendice contenente notizie delle donne illustri.

 

1) Scrittrici tra Ottocento e Novecento.

Scrittrici che segnano il passaggio tra 800 e 900, Aurelia Folliero De Luna Cimino, Grazia Mancini Pie­rantoni, Fanny Salazar Zampini, Maria Savi Lopez, Matilde Serao, riescono a formalizzare, con la vita e con le opere, un “modo altro” di essere donne e di svolgere la professione intellettuale. Questo piccolo drappello è esemplare di quel clima culturale e di impegno civile esistente a Napoli, comune a quello che si stava sviluppando in tutta Italia e soprattutto all’estero.

Gli antagonismi e le rivendicazioni, presenti nella produzione letteraria nazionale dell’800[12], con queste autrici cedono il passo ad una affermazione di soggettività più serena e sicura di sé. Le prime tre, sia pure ostacolate dalla mentalità corrente, si battono apertamente per i diritti i delle donne. Le altre due, forti di una autorevolezza che possiedono, si muovono con caparbietà e naturalezza nella produzione letteraria. Tutte, soggetti forti, oltrepassano i confini della marginalità loro assegnata e riescono a costruire, grazie anche alla popolarità[13] di cui godettero, una storia necessaria alla coscienza femminile moderna[14].

Tutte si misurano, ciascuna a suo modo, oltre che con la poesia e/o con la narrativa, con la saggistica e/o con i mezzi di comunicazione di massa : quasi tutte dirigono e fondano giornali, le prime quattro rompono in alcune opere i canoni rigidi di separazione tra i generi letterari.[15] Protagoniste asso­lute dei dibattiti che a quel tempo (ma anche oggi) si portavano avanti, compiutamente coscienti della propria condizione di donne, di meridionali, di appartenenti a quella fascia tra ari­stocrazia illuminata e borghesia intellet­tuale che determinò i modi del processo di formazione dell'Italia (e che delimitò gli spazi per le donne eppure comportò anche che esse ne conquistassero), vissute in ambienti familiari e cultu­rali che influirono molto sulla loro formazione (la figura pater­na e soprattutto la materna crearono una genealogia che va tenuta ben presente), viaggiatrici, attente ai fenomeni politici e culturali in generale, al destino delle donne, alla loro vita, alla loro pro­duzione letteraria,  impegnate quasi tutte su temi “femministi” centra­li di quegli anni (il diritto al lavoro, il diritto di voto e in certi casi anche di eleggibilità, la famiglia, il matrimonio, il divorzio, l'edu­cazione -spe­cialmente quella fem­mi­nile-, l'impe­gno politico, la guerra, la dignità della donna sola, il rapporto con le Istituzioni, eccetera), Aurelia, Fanny, Grazia, Maria, Matilde, tornano tutte, ciascuna a suo modo, sulla necessità della visibilizzazione del corpo femminile, perché simbolica della diversità del punto di vista e esemplare del fatto che le idee non provengono da astrazioni puramente intellettuali ma dall’incontro (cioè dalle esperienze di vita e intellettuali) tra le soggettività (e dunque i generi) e il mondo circostante. Queste cinque scrittrici furono tutte ricono­sciute a livello nazionale e internazionale, da contempo­ranee e da contempora­nei, e tutte, tranne la Serao, furono cancellate e rimosse, come è ac­caduto per tante altre, dalle storie letterarie, politi­che e di costume.

 

  1. a) Aurelia Folliero De Luna Cimino

Per Aurelia Folliero De Luna Cimino, nata a Napoli nel 1827, fu certamente importante essere figlia della poeta e scrittrice napoletana Cecilia De Luna. A 10 anni Aurelia si trasferisce con la madre a Parigi dove conosce personaggi (uomini e donne) rappresentativi della cultura france­se e italiana. Tornata in Italia, sposa il poeta e patriota Tom­maso Cimino, col quale nel 1848 deve esulare in Inghilterra. A Londra, Aurelia dà lezioni di letteratura italiana, francese e spagnola ai figli dei nobili. Di nuovo in Italia, fonda a Firenze la rivista “Corne­lia, apre un Istituto agrario a Cesena, è cor­rispondente di "The Revolution"[16], famoso giornale americano, e del parigino "Le droits des femmes". Muore nel 1895. Delle sue mol­tissime opere, tra le quali anche ro­manzi, drammi e raccolte di poesie, ricordo Sta­bilimenti agrari femminili (Firenze 1879), Questioni socia­li (Gargano, Cesena, 1882), Teosofia moderna (Ro­ma 1893). In Questioni sociali, raccolta di saggi, artico­li, studi, già i titoli degli interventi mostrano l'intelligenza, la coscienza e la cultura di questa donna : La questione femminile in Italia e all'estero, Riforme legislative e universitarie, Educazione e affetti, Istruzione, Idealismo e scetticismo, L'Opinione pubblica nella società. Aurelia inaugura la piena coscienza di una nuova esistenza sociale, culturale e politica delle donne, le quali, svincolandosi dall’unico ruolo tradizionalmente riconosciuto, quello della maternità nel matrimonio, sono ormai, a suo avviso,  in grado come persone,  sposate o nubili, di "esercitare un'azione diretta sui costumi e sulle idee". Di conseguenza, Aurelia afferma la necessità della pre­senza delle donne nei tribunali, nelle carceri, nelle Istituzio­ni, per­ché, sottolinea, il loro punto di vista è altro da quello degli uomini[17]. Aurelia affronta anche i temi già segnalati : dal divorzio all'educazione delle fanciulle e alla loro ne­cessaria autonomia economica e cul­turale, dal diritto al lavoro (in tutte le professioni, anche in quelle scientifiche) alla necessità di giornali e as­sociazioni femminili che pratichino la soli­darietà tra donne per dare loro forza contro le violenze degli uomini, dalla stupidità della politica e degli interessi di potere alla follia delle guerre. Raccomanda insomma alle donne di "pensare un po' seriamente ai loro veri interessi, di adempiere con zelo i loro doveri, ma di non dimenticare i propri diritti, poiché alle volte anche l'esercizio d'un di­ritto è un dovere"[18].

 

  1. b) Grazia Mancini Pierantoni

Anche Grazia Mancini Pierantoni, nata a Napoli nel 1843, è figlia di un’importante poeta, Laura Beatrice Oliva, e di Pasquale Stanislao Mancini, a sua volta figlio di Grazia Maria Riola, donna di grande sensibilità, alla quale Grazia fu tanto legata da curare la pubblicazione di un suo scritto ine­dito: Il manoscritto della nonna (Tip. Forzani, Roma, 1878)[19]. Fratello di Gra­zia è Eugenio che sposerà Eva Cattermole, la Contessa Lara, dalla quale si separerà in modo drammatico. Nel 1848 la famiglia Mancini si rifugia a Torino, dove vivranno fino al 1860, anno del ritorno a Napoli. Dal '60, Grazia vive tra Napoli, Torino, Roma, dove nel 1868 sposa Augusto Pierantoni, professore di diritto internazionale presso l’Università di Roma. A Roma muore nel 1915. Grazia collabora a molte riviste, tra le quali “La Nuova Antologia, si occupa dell’educazione delle ragazze, scrive versi, commedie, libri per ragazze e per ragazzi, novelle e romanzi, traduce Dickens e altri autori inglesi e tedeschi. Della sua vasta produzione ricordo : Commedie d’infanzia (Napoli, 1874), Teatro per le fanciulle (Napoli 1874), Poesie (Bologna 1879), Lidia (Milano 1880), Nuove poesie (1888), Donnina (Pierro, Napoli, 1892)[20], Marito e avvocato (Tip. Pallotta, Roma 1892), La signora Tilberti (Città di Castello 1894), Alla vigilia (Torino 1896), Una pagina di storia (Nuova Antologia, Roma, 1898), Impressioni e ricordi :1856-1864 (Tip. Cogliatti, Milano, 1908). In questo bel­lissimo dia­rio[21], importante esempio di scrittura femminile fuori dai canoni letterari, Grazia raccon­ta del padre, della madre, del rapporto con Napoli, dei primi cimenti letterari. Benché giovanissima, Gra­zia coglie una serie di problemi riguardo la giustizia sociale, le difficoltà delle donne, specie se sole e non garantite da fami­glie, le differenze culturali tra Nord e Sud, la delicatezza del compito dello Stato italiano nel processo di unificazione. Rifiuta con fermezza la pena di morte, giudicandola un “ultimo avanzo di leggi, che non possono più essere quelle dei popoli civili” ; ha parole indi­gnate per i cortigiani che, prima schie­rati in un senso, dopo la sconfitta degli antichi padroni, ne cercano di nuovi ; rimane per­plessa di fronte a certi incarichi politici e amministrativi, affidati più per meriti politici che non per le capacità necessarie a ministri del Regno, e, più complessi­vamente, si ren­de immediata­mente conto degli errori del nuovo governo della città e delle procedure amministrative e politiche adottate dallo Stato italiano. Grazia sottolinea il problema della po­vertà esistente a Napoli e nel Sud, ma sottolinea anche la laboriosità e la competenza degli operai meridionali, arrivando ad al­largare il di­scorso in una fervi­da, sia pure ancora ingenua, de­nuncia sociale. E infine riven­dica alle donne il diritto/dovere di svolgere funzioni ben precise per assumersi responsabilità di fronte alla Storia. Nei romanzi e nei racconti, Grazia è debitrice, come quasi tutte le scrittrici di quegli anni, a Verga, naturalmente a suo modo[22]. Per ciò che riguarda il teatro, si tratta, quando non sia diretto esplicitamente ai giovani, di tipica commedia borghese, agile e scorrevole per ciò che riguarda il ritmo scenico, attenta  agli eventi contemporanei. Per esempio, in  Marito ed avvocato, commedia graziosa, si discute sulla legge del divorzio che tarda ad arrivare. Il centro del discorso è la difficoltà di trovare un accordo paritario tra marito (affettuoso ma conservatore e incapace di comprendere le ragioni della moglie) e moglie (davvero di poche pretese). Grazia bacchetta i mariti per l’egoismo, l’autoritarismo e l’incomprensione dei diritti elementari delle donne, e alla fine scioglie il tutto nella dolcezza femminile che, unita ad una salda qualità intellettuale, può vincere anche i più ritrosi.

 

  1. c) Fanny Salazar Zampini

Opera fuori dai canoni tradizionali, una sorta di diario di vita e di lavoro, è anche il bellissimo Antiche lotte, speranze nuove (Tocco, Napoli, 1891) di Fanny Salazar Zampini. Anche Fanny ha una madre importante, Dora Calcutt, coltissima e gentile, che accoglie, nel suo salotto politico-culturale, illustri perso­naggi. Anche Fanny vive l’infanzia in un ambiente politicamente progressista. Nata nel 1853 a Bruxelles dove il padre, Demetrio Salazar, patriota di origine calabrese, trapian­tato gio­vanissimo a Napoli, era stato esiliato dopo il 1848, Fanny ha sette anni quando è a Napoli nel 1860 a salutare l'arrivo di Garibaldi tra le braccia del padre. E tra Napoli (con puntate di lavoro e di riflessione in Calabria, a Cava dei Tirreni, a Resina...) e Roma, a parte numerosi viaggi in Italia e all’estero, trascorre la sua difficile vita di donna combattiva, colta, instancabile lavoratrice sempre gravata da problemi economici. La sua condizione  di donna sola (dopo la separazione dal marito, muoiono, tra l’82 e l’83, anche i genitori), unita alla sua intelligenza e alla sua sensibilità, la porta ad af­frontare nella vita e nella scrittu­ra quelle te­matiche fondamentali che già abbiamo segnalato, soprattutto quella del divorzio e quella del diritto al lavoro per ogni donna. Della sua vastissima attività letteraria, iniziata da giovanissima ma abbracciata come professione alla fine degli anni ’70[23], ricordo la raccolta di novelle Tra l'ideale e il reale (Rondinella, Napoli, 1879), Manuale di economia domestica (1880), Cenno sui co­stumi del popolo napoletano (1880), Briciole (Tip. Carluccio, Napoli, 1881), Costumi popolari (di Napoli) (in Memorie di Napoli...., C.A. Bronner e C.ia, Napoli, 1882), Uno sguardo sul­l'avve­nire delle donne in Ita­lia (E. Detken, Napoli, 1886), Antiche lotte, speranze nuove (Tocco, Napoli, 1891), La vita e le opere di Robert Browning ed Elisabeth Barrett (Ed. nazionale, Torino-Roma, 1907, ma già Tocco, Napoli, 1896, col titolo Robert e Elisabeth Browning), Cavalieri moderni (Voghera, Roma, 1905), Studi sulla vita e le opere di Cristina Rossetti e Jane Austen (1922), Olivia Agresti Rossetti (Nuova Antologia, Roma 1922), Margherita di Savoia, prima regina d’Italia (Tip. Irlandese, Roma, 191.). Fanny è anche conferenziera e giornalista importante : nel 1881 dirige la collana "Bi­blio­teca azzurra", nell’86 fonda “La Rassegna degli interessi femminili”[24] e nel 1901 fonda “The Italian Review”[25]. In tutti i suoi scritti, nelle conferenze, negli interventi ai convegni, nel suo giornale, Fanny, partendo dalla propria esperienza, affe­rma la necessità per le donne di avere indipendenza economica, cultura, conoscenza, per poter essere libere, autonome, sicure di sé, e, insieme, di recuperare memoria della storia delle donne[26]. Unica tra le italiane, parteci­pa al Congres­so In­terna­zionale femminile a Washington, con una rela­zione che non può portare di persona, ma che le procura let­tere e conoscen­ze d'ol­tre oceano.  Nel 1889 va a Parigi per il Congresso inter­nazionale delle opere ed istitu­zioni femminili, e prosegue per l’Inghilterra, dopo essere riuscita ad ottenere un incarico ufficiale che le copra le spese. Nel 1890 manda un intervento, La donna italiana nella beneficenza, alla Esposizione delle Arti e delle industrie fem­minili di Firenze[27]. Con le pubbliche conferenze, tra le quali segnalo Schiavitù in Africa[28] (ma Fanny sposta il discorso sulla schiavitù delle donne), Convenzionalità e riforme, Igiene e bel­lezza, Carità[29], La unità della patria[30], L’Italia all'estero[31], Fanny porta avanti, come altre donne[32],  due importanti o­perazio­ni : la battaglia per il riconoscimento della professionalità femminile[33] e quella della visibiliz­zazione del corpo femminile. E in tutto ciò che scrive, il corpo (non solo quello femminile) è elemento fonda­mentale di svelamento e di eversione[34]. I diritti delle donne che Fanny rivendica (al lavoro, alla libertà, al rispetto, alla visibilità) contraddicono quel corpo debole, quella fragilità nervosa che sempre più diven­tavano le caratteristiche assegnate alle donne dalla lettera­tura del tempo[35]. Fanny inoltre osa affrontare il discorso dell'educazione sessuale e propone corsi di ana­tomia e fisiologia per eliminare le morbose sentimentalità, le ipocrisie e i miti decadenti del romanticismo i­dealista. Denuncia che le casalinghe non vengono riconosciute come lavoratrici, che le donne non hanno diritto al voto e non godono di pieni diritti civili, che la condizione delle maestre è insostenibile sia dal punto di vista economico sia da quello di immagine sociale e professionale. E si batte perché vengano approvate leggi contro i sedutto­ri, per la ri­cerca del­la paternità, per la tutela dei bambini abban­donati, fino a proporre che, se gli uomini non vogliono riconoscere la pate­rnità, si ­torni al Matriar­cato. Convinzione di Fanny, ripetuta da lei più volte, è che i paesi ci­vili sono tali se tale è la condizione delle donne. La questi­one femminile diventa questione sociale, culturale, eco­nomica, per la produttività, per la cultura, per la morale di un paese.

Ordinaria di lingua e letteratura inglese nella Scuola superiore di magistero femminile di Roma, Fanny prepara un Programma della scuola per ragazze. I punti essenziali sono : educazione all’autostima, alla libertà intellettuale di pensiero e di azione, formazione per un lavoro indipendente. Ma Fanny vuole an­che che le donne studino il diritto, le leggi che le riguardano, per sapersi difendere e per saper attac­care, insomma per esprimersi in piena autonomia ed essere soggetti forti, diremmo oggi, riconosciuti dal Paese e quindi con la possibilità di contribuire, dal proprio punto di vista, al progresso generale. In Olivia Agresti Rossetti (nipote del poeta Dante Gabriele e di Cristina Rossetti),  Fanny scrive una biografia che mette in luce, in modo appropriato, questa donna, colta, intelligente, conferenziera, organizzatrice culturale, manager, politica.

Tutti questi temi (in particolare il diritto di voto e di lavoro per le donne, il divorzio, la ricerca della paternità, l’educazione e la cultura per le donne, ma anche lo sfruttamento del lavoro da parte del Capitalismo, le leggi ingiuste e il rapporto delle donne con le Istituzioni...) sono presenti anche in Cavalieri Moderni, romanzo “a tesi”, forse non compiuto perfettamente sul piano narrativo ma rispondente ad una scelta precisa, dichiarata dall’autrice sin dalla citazione, in apertura, di una affermazione di Mazzini sul valore e sulla necessità della scrittura “impegnata”. Cavalieri Moderni che, nei propositi di Fanny, doveva essere il primo “di una serie di romanzi, intesi a rappresentare la società contemporanea”, è un romanzo interessante. Ripresa dallo sguardo femminile, viene rappresentata una realtà dove le donne devono fare gran fatica ad uscire dai ruoli fissati. Ciascun personaggio è emblematico di mentalità negative o, al contrario, libere da pregiudizi : l’uomo vanitoso, fatuo e cinico, la fanciulla inesperta, la donna intelligente e colta, il politico progressista, eccetera. Le loro storie si sviluppano, a volte parallele, per rincontrarsi nel finale tragico, che tuttavia non rinnega le ragioni dell’impegno.

 

  1. d) Maria Savi Lopez

Maria Savi Lopez nasce a Napoli nel 1846. Musicista, poeta, narratrice, studiosa di letteratura italiana, é ricercatrice a livello internazionale di tradizioni popolari e di leggende. Insegnante, si occupa dei problemi della scuola e dell'educazione. Muore nel 1940. Della sua vastissima produzione, cito: Casa Leardi [36] (Speirani, Torino,1886), Versi (Torino 1886), Battaglie nell'ombra (Torino 1887), Leggende delle Alpi (Loescher, Torino, 1889), Le donne italiane nel ‘300[37] (Civelli, Firenze,1890),  Fra le Ginestre (Pierro, Napoli, 1892), Nei paesi del Nord (Torino 1893), Leggende del mare[38] (Loescher, Torino, 1894), Miti e leggende degli indigeni americani (Milano 1894), La dama bianca (Giannotta, Catania, 1899), Il  poema di Gudrun (Roma 1913), Santa Caterina da Siena (Milano, 1924), Nei regni del sole- Antiche civiltà americane (Treves, Roma, 1926), Città morte -dal Messico all’Honduras (Rinascimento del Libro, Firenze, 1931).

Casa Leardi è un romanzo borghese che mette in scena la trasformazione economica e sociale di quegli anni, con al centro la figura di Lelia, maestra elementare, esemplare figura di donna che cerca la propria autonomia realizzandosi nel lavoro e poi nell’amore. In Leggende del Mare, opera di alta sensibilità poetica e di acuta indagine analitica, ricca di puntuali citazioni e riferimenti bibliografici, Maria raccoglie leggende, fiorite in tutti i tempi e in tutti i luoghi, e le racconta con un linguaggio coinvolgente e magico, mettendo in scena anche streghe, sirene, fate. Il grande amore di Maria per la poesia, oltre che nei versi, è testimoniato da varie opere dove Leopardi è il grande maestro, ma anche da quelle che danno spazio ai poeti delle antiche civiltà della tradizione anglo-americana.  Così Longfellow è ispiratore de La dama bianca, libero adattamento al femminile, direi, de Il vascello fantasma, e nel  Poema di Gudrun è la tradizione orale dell’antico poema tedesco che viene recuperata. In questo bellissimo saggio, dalla scrittura completamente nuova per un genere letterario  fino ad allora fortemente caratterizzato, il discorso, puntuale, scientifico, colto, si fa a tratti narrazione, favola. Anche il lungo saggio Nei regni del sole ha ritmo di favola. Qui Maria, lavorando sul Messico, sugli Aztechi, sui Maja, sui Peruviani,  sostiene che la forza delle tradizioni americane non sono da meno di quelle dei Popoli Pagani del nostro Mondo Antico. Storie, leggende, citazioni si alternano e si fondono in una scrittura del tutto fuori da ogni canone tradizionale anche in Città morte, lavoro degno della migliore tradizione di ricerca  antropologica (che nasceva in quegli anni). E, per finire, segnalo la biografia di Santa Caterina da Siena, dedicata al figlio Paolo (morto in guerra nel 1919). In questo caso Maria apre alla storia di quegli anni, ai personaggi, alle condizioni socio-economiche-culturali che fanno da scenario alla vita della Santa.

 

  1. e) Matilde Serao

Matilde Serao ha al suo attivo una quarantina di romanzi e raccolte di novelle, un’attività continua di giornalista, di direttrice e fondatrice di giornali, una costante attenzione da parte del suo vasto pubblico, un riconoscimento, sia pure a volte convenzionale, da parte della critica e, ancora oggi, è tra le pochissime scrittrici italiane non cancellate dalla memoria collettiva e citate nei testi scolastici. Eppure, la sua stessa fortuna ha alimentato una lettura di tipo “neutro” e allo stesso tempo il taglio “neutro”  delle letture ha permesso la sua fortuna[39]. In realtà, manca uno studio completo che dia ragione della complessità della sua opera, indaghi la qualità della scrittura, la funzione che esercitò come giornalista e come scrittrice, il rapporto tra scelte di vita e pubbliche prese di posizione, e sottolinei la modernissima sua sapienza nella creazione del suo personaggio.

Matilde è l’ultima esponente di una certa tipologia di scrittrici dell’800  e nello stesso tempo ne anticipa una nuova, proiettata verso il secolo successivo. Raccogliendo l’eredità, la tradizione di presenza e di scrittura, porta all’estremo quella immagine di donna e di scrittrice che di lì a poco andrà scomparendo, ma anticipa tratti della donna moderna. Anche le sue eroine danno vita ad un immaginario forte nei riguardi delle donne, destinato a mutare di lì a poco. La passionalità, la forza, la centralità dei suoi personaggi femminili più riusciti, l’unità stretta tra testa e corpo, tra passione e intelligenza critica, tra partecipazione e distacco, sono caratteristiche di sé che, più di altre, a Matilde piace evidenziare. Perfino la sua scrittura, che spesso parrebbe “spontanea” (e a volte lo è), fa parte dell’immagine costruita da Matilde, della scrittrice (e della giornalista) che scrive di getto, appassionatamente, sull’emozione del vissuto o sul filo della memoria[40]. Nella vita reale Matilde è tutto questo ed è anche prepotente, ambiziosa, sicura di sé. Soggetto forte, si procura visibilità, attenzione.

Come già nella tradizione ottocentesca femminile, Matilde, nel rappresentare ambienti borghesi, aristocratici, popolari, sempre si sofferma su temi che abbiamo segnalato, come il matrimonio di convenienza, la capacità di amore come privilegio femminile, gli antagonismi tra i due sessi di sguardo e di comportamento, le condizioni di lavoro delle donne, eccetera, o allarga la problematica su questioni  “generali”, come quando porta avanti la denuncia ferma dell’usura e della presenza della camorra, o quando mostra grande sapienza nel cogliere il doppio della cultura meridionale.

La novità è che il  suo “campo d’ambiguità” nell’opera letteraria, per quel che riguarda la mediazione con la tradizione letteraria, con i critici, con gli editori,  è ridottissimo. Matilde riesce a creare il suo pubblico, cerca lettrici e lettori dove sa di trovarli . Nelle sue opere migliori riesce a dire esattamente ciò che vuole e come vuole. Matilde, nello stesso momento in cui formalizza il mito della scrittrice, sebbene crei relazione preferenziale con le lettrici,  non  sottolinea di essere una donna che scrive per demistificare le mentalità e svelare  violenze. Sta di fatto che, nei testi,  accomuna gli uomini, da qualsiasi classe provengano, in una febbrile ricerca di danaro, di successo, di avventure amorose, di passioni, unita ad una sorta di  passivo attraversamento della vita. Il cinismo o la vacuità, la freddezza o l’inconsistenza dei personaggi maschili, rappresentati senza nessuna animosità, anzi a volte con la tenerezza della superiorità, ha come controcanto la rappresentazione dei personaggi femminili che sempre, siano essi fragili, puri, o superficiali, crudeli, sono centrali della scena. Matilde con le donne crea comunanze, ma svela loro anche pieghe dei loro comportamenti, dei loro sentimenti, della loro mentalità: svela debolezze, perbenismo, ipocrisia, abitudine all’autodistruzione. E comunque, in ogni caso, le donne sono attrici, nel senso che agiscono : si accollano la soluzione dei problemi economici, osano dichiarazioni appassionate, sfidano la società e la morale corrente e, se vinte, si uccidono. Gli uomini, invece, sebbene spesso, travolti dagli eventi, minaccino gesti definitivi, non si uccidono mai[41].

Comprendere Matilde è comprendere che, una volta chiarita la nozione di differenza, punta di vista, scrittura e lettura di genere, ciascuna donna è diversa dalle altre e ciò che è importante in Matilde è l’autonomia, la soggettività con cui si muove, con cui costruisce i suoi “esempi” di essere donna, scrittrice, giornalista, imprenditrice. Comprendere Matilde serve anche a leggere meglio le altre scrittrici, perché lei riesce a lavorare con una raggiunta libertà di scrittura, e di visibilità, che altre non ebbero, impegnate, giustamente, nella rivendicazione dei diritti, “distratte”, direbbe Virginia, dalla dimostrazione di assunti, coerenti in scelte etiche necessarie per il loro tragitto e per quello delle altre. Matilde semmai, è “distratta”, riguardo l’opera letteraria, dalla pratica giornalistica e dalla volontà di comunicazione, che le tolgono tempo ma le offrono pubblico.

Nata a Patrasso nel 1856 da Francesco Serao e Paolina Bonelly, donna colta e aristocratica che contribuiva al bilancio familiare dando lezioni private, Matilde trascorre in povertà la sua fanciullezza a Napoli, dove consegue il diploma di maestra nel 1876. Impiegatasi ai Telegrafi di Stato, inizia contemporaneamente a collaborare ad alcuni giornali e a pubblicare novelle. Morta la madre amatissima nel 1879, due anni dopo Matilde si trasferisce con il padre a Roma ed è qui che ha inizio la sua carriera giornalistica. Diventa collaboratrice fissa del Capitan Fracassa e poi del Fanfulla della Domenica, della Nuova Antologia, della Cronaca Bizantina. Assieme a Edoardo Scarfoglio, sposato nel 1884 e con il quale avrà quattro figli, fonda il Corriere di Roma, il Corriere di Napoli, Il Mattino.  Nel 1904 si separa dal marito, costruendosi una nuova vita familiare con l’avvocato Giuseppe Natale con il quale avrà la figlia Eleonora,  e fonda Il Giorno che sopravviverà di un solo mese alla sua morte nel 1927. Della sua vastissima produzione, segnalo in particolare : Leggende napoletane  e Cuore infermo (1881), Fantasia (Casanova, Torino, 1883), La virtù di Checchina e Il ventre di Napoli (1884), Scuola normale femminile (Nuova Antologia, Roma, 1885), Il romanzo della fanciulla (1886), Vita e avventure di Riccardo Joanna (Milano, 1887, ma riveduto e ripubblicato con il titolo I capelli di Sansone, Perrella, Napoli, 1909),  Il paese di Cuccagna (1891), Gli amanti (III edizione, Napoli, Perrella, 1908), Piccole anime (Baldini e Castoldi, Milano, 1902), Storia di due anime (Nuova Antologia, Roma, 1904), Telegrafi dello Stato (Perino, Roma, 1895),  Dopo il perdono (Nuova Antologia, Roma, 1905), Evviva la vita! (1908), Ella non risposeAddio amore !Castigo (1914), Mors tua vita mea (1926) .

Più o meno fino a Il paese di Cuccagna, Matilde è soprattutto attenta, grazie alla lezione del naturalismo francese (specie Flaubert e Zola) e della grande tradizione napoletana, ma anche grazie alla tradizione femminile non solo napoletana e alla sua stessa inclinazione, alla rappresentazione della realtà circostante, alla “lettura” della esperienza vissuta prevalentemente in ambienti popolari e piccolo borghesi. Prendono vita così e entrano nella tradizione letteraria inediti  tagli di scenari, si consolidano miti e oggetti di attenzione, tutti elementi che fanno dimenticare la sovrabbondanza, gli errori, le lungaggini. Ed è straordinaria la capacità di rappresentazione dei percorsi psicologici dei suoi protagonisti e la capacità di connotare, all’interno della folla che la scrittrice va rappresentando, le comparse, ciascuna di queste resa riconoscibile in poche righe grazie alla rappresentazione di un tic, del modo di vestire e di muoversi, della fisicità. L’attenzione alla fisicità di tutti i personaggi, e specie di quelli femminili, è certamente forte nella prosa di Matilde, che, grazie ad essa,  legge e rappresenta i  caratteri. Matilde racconta storie con sapienza di affabulatrice. Anche in lei funziona il ricordo del racconto orale, delle donne. Nello scrivere è letta dal testo, nello scrivere ascolta il suono della sua scrittura, delle parole, dei toni, perciò a volte ci sono ripetizioni, perché queste nell’oralità funzionano. Ma non è sciatteria: è una tecnica precisa che include anticipazioni[42], piccoli richiami, giudizi, commenti, e così svela e tiene sospesi. Le descrizioni  minuziose dei paesaggi, del cibo, dei personaggi, a volte anche troppo lunghe, sono sempre funzionali a rappresentare un mondo, un modo di essere, di comportarsi, funzionali a ricostruire i contesti nei quali si muovono i suoi protagonisti, proprio al fine di sottolinearne la verità e la complessità.

E’ anche grazie a questa felicità di rappresentazione che Matilde diviene creatrice di un  immaginario riguardo le usanze, i comportamenti, il  colore della cultura napoletana. Per esempio, Matilde coglie quella specie di reificazione del divino, quell’atteggiamento alla pari che il popolo napoletano mantiene con la sfera del sopra naturale[43]. Questo immaginario, che con lei fu pura invenzione poetica, lettura attenta di un mondo del quale Matilde cerca le peculiarità profonde, diverrà poi di repertorio, ingombro di metafore d’uso, ma alimenterà anche l’opera di importanti autori napoletani come Marotta, i De Filippo, Troise.

Matilde porta avanti operazioni di svelamento di grande interesse, grazie alla rappresentazione dei contrasti, alla capacità di cogliere nei comportamenti, e dunque nel costume, le crepe dell’animo umano e le ragioni sociali che a loro volta sono alla radice degli stessi comportamenti e della stessa cultura. Per esempio la passione del gioco, le ragioni dell’affidamento a tale rito da parte del popolo napoletano e le sue tragiche conseguenze, sono elementi centrali dello scenario che Matilde va rappresentando. Il lotto è, spiega ne Il ventre di Napoli,  il sogno del napoletano: tutta la settimana egli aspetta l’estrazione e si nutre dei progetti che fa. Dopo l’estrazione e la conseguente delusione, riparte per un’altra settimana di speranza. Nel racconto, Il terno al lotto, la verità dell’opera supera la razionalizzazione del fenomeno che Matilde aveva operato nella scrittura giornalistica, e il sogno del lotto viene svelato come inganno. Ed è tutta nuova la tecnica, presa dal teatro, per dare ritmo e movimento alla narrazione. Il Terno è una sorta di testimone, di oggetto scambiato (i numeri che passano da una mano all’altra, dalle labbra alle orecchie di persone diverse) sotto il riflettore sul palcoscenico, è la finzione per rappresentare un insieme, un elemento dopo l’altro, uno sfilare di immagini, di figure, di storie. Il danaro, invece, è una sorta di testimone assente : è alla sua ricerca che si mobilitano personaggi di Il paese della cuccagna, o di Vita e morte di Riccardo Ioanna. E in quel caso la scrittura diventa vorticosa, martellante, cadenzata e ci obbliga a seguire il giro affannoso per la città, alla ricerca di una cifra che man mano diviene sempre più piccola, perché le pretese, rifiuto dopo rifiuto,  si riducono sempre più all’indispensabile, giusto quel tanto che serva ad opporsi al disastro. Alla drammaticità degli eventi è collegata la propensione di Matilde a giocare, per esempio su coloro che discutono di numeri, di visioni, di illuminati, di ispirazioni...Allora la scrittura si fa leggera, ammiccante. Sul Lotto, sul Gioco, Matilde tornerà più volte e in modo compiuto ne Il paese della cuccagna, bellissimo romanzo dove la descrizione dei corpi, degli atteggiamenti, del modo di muoversi, di camminare, dei vestiti e dei dolci, dei gelati, del gusto del mangiare, mette in primo piano il corpo, la fisicità dei caratteri e occupa la pagina traboccandone, offrendo un esempio importante di dilatazione spaziale della scrittura. Matilde, è stato scritto, riprende la descrizione della povertà, del mondo sommerso e sconosciuto che era stato già rappresentato da Mastriani e dalla Mario, da Fucini e da Villari. Ma qui la rappresentazione del mondo del degrado è strettamente collegata a quella del mondo dell’operosità[44]. Nei quartieri napoletani, insiste Matilde, c'è un brulicare di attività: guantai, calzolai, sarte, dolciari, lavoratori a tempo, artigiani, venditori, commercianti, tutto quel mondo artigiano, che sarà ucciso dall’industria, qui è ucciso dal Lotto e dall’incuria dello Stato. Il guappetto elegante mantenuto dalla fidanzata (la quale invece si industria in mille attività), i cabalisti (che si riuniscono presso il Marchese a discutere con accanimento di giocate, di calcoli di probabilità e di magia), gli usurai, ricchi riveriti e ammirati, i camorristi, i professori universitari che vendono esami e imbrogliano alunni contadini, l’assistito, che fa da tramite tra le sfere del soprannaturale e la realtà[45], la folla di personaggi (sventati, vanitosi, avidi, deboli...) dei quali conosciamo gli affanni e dei quali seguiremo la dissoluzione, tutti a causa del gioco e dell’usura si perderanno. Tranne Cesare, che scoprirà in Luisella, la moglie, una forza e un’energia non immaginata : sarà Luisella a prendere in pugno la situazione e a salvare il salvabile[46]. Della febbre del gioco, che ricorda Dostoevskij de Il giocatore (1866), e che sta a dimostrare il rapporto di Matilde con gli scrittori russi molto prima di quanto comunemente non si annoti, le ragioni sono da cercare, insiste Matilde, sì nella povertà, ma forse soprattutto nello sfruttamento dello Stato, lontano e disinteressato ai problemi e alla cultura di Napoli: grazie al Lotto lo Stato guadagna (“prende ogni anno sedici milioni alla città di Napoli ...e a tutta la patria italiana sessantacinque milioni”), il Lotto è il miraggio creato dallo Stato, è il Paese di Cuccagna[47].

Ne La virtù di Checchina, Matilde svela questa volta la natura reale della “virtù” piccolo e medio borghese, tanto decantata dalla pia letteratura e anche dalla letteratura reazionaria-educativa di quegli anni : la moglie devota, fedele e attenta a far quadrare i bilanci avaramente o sbadatamente amministrati dal marito, si rivela una povera disgraziata che rimane “virtuosa” perché non riesce a liberarsi dai miti legati all’apparenza, e rimane paralizzata nella contemplazione della propria “povertà”[48]. Ma c’è un secondo svelamento egualmente importante: se le donne non compiono uno scatto d’orgoglio e di fiducia in se stesse, sottolinea Matilde, l’alternativa a codesta scialba “virtù” consisterebbe nella egualmente scialba e banale relazione con il mediocre aristocratico di turno.

Diversa la produzione del 900 : in essa, a parte la vena più o meno consistente di misticismo in opere che vanno da  Nel paese di Gesù (1898), La Madonna e i Santi (1902), S. Gennaro nella leggenda e nella vita (1909), i critici hanno sottolineato l’influenza dei grandi narratori russi e dell’amato Bourget. A mio avviso, in Dopo il perdono, Addio amore, Castigo, le qualità precedentemente segnalate si sono perse. Questi romanzi borghesi e sentimentali mi appaiono noiosi, prolissi, lenti. Le donne e gli uomini, prevalentemente dell’alta borghesia, vengono presentati nei loro stereotipi più diffusi (la protagonista di Dopo il perdono è  “solitaria”, “orgogliosa”, “bellissima”; Cesare, protagonista di Addio amore e di Castigo, ha 40 anni, è cinico, pallido, elegante[49]), certe descrizioni che dovrebbero essere drammatiche, finiscono per essere patetiche. La scrittura è spesso gonfia, sciatta, non c’è invenzione di trama, sebbene si cerchi una originalità pescando in suggestioni che apparterranno anche alla moderna telenovela. Le protagoniste di questi romanzi,  bellissime, orgogliose e solitarie,  ripropongono la edificazione del mito della donna sublime, appassionata, che si dà tutta, e recuperano le metafore del pallore, della malinconia, della malattia d’amore, della TBC, così frequenti nella narrativa (maschile) del tempo, a cominciare dalla produzione dannunziana, stereotipi già attaccati da altre scrittrici  e derisi nella vita da Matilde[50]. Da questi romanzi si distacca Evviva la vita!  per l’impianto ambizioso, debitore anche esso, come spesso è stato notato, nei confronti della letteratura russa. Eppure anche questo romanzo, storia delle aridità di donne e di uomini, è noioso, con bellissime e lunghissime descrizioni troppo compiaciute, con un titolo troppo simbolico.

A mio avviso, Matilde con questi romanzi “borghesi” entra nella schiera di narratori d’amore di stampo dannunziano. Eppure alcuni segni mi inducono ad una maliziosa lettura che parte dalla rivisitazione del rapporto letterario tra Matilde, D’Annunzio e dannunziani: Matilde conosce bene la fortuna di D’Annunzio, chiamato come collaboratore a Napoli da lei e da Scarfoglio, conosce bene la sua prosa, le sue descrizioni di ambienti e di personaggi, donne che si perdono per passione, uomini che affondano nel cinismo, nella freddezza, nel  pallore. Ora si badi: a Napoli in quei primi anni del 900, ci si divertiva a prendere in giro (come accade ancora oggi) personaggi famosi. Agli amatori di curiosità del passato è nota la dissacrante canzoncina che prendeva di mira il buon Gabriele[51], ed è nota la querela che ebbe Scarpetta, nel 1904, per aver scritto e rappresentato Il figlio di Iorio, dissacrante “risposta” al poeta pescarese : il dramma diveniva commedia, farsa, e le situazioni, completamente capovolte, da drammatiche si rendevano ridicole. Allora viene da chiedersi, ritornando ai romanzi che riprendono atmosfere dannunziane, e cioè decadentismo di maniera, esasperazione della morbosità grottesca della passione che sfiora (e a volte affonda nel) ridicolo, se Matilde che, nella vita e in tante prese di posizione sui giornali, di fatto non ha mai mostrato propensione verso il “modello” dannunziano, non partecipi, anche in questo, alla propria cultura, e se dunque essi non siano, se non una parodia dei personaggi e degli ambienti dannunziani, una sorta di svelamento attraverso l’esasperazione di miti, atteggiamenti, ambienti, caratteri, resi popolari da D’Annunzio e dannunziani[52]. Le donne di questi romanzi appaiono, in tal caso, smascheramento delle proiezioni maschili[53].

Grazie a questa chiave,  comprendiamo meglio come in questi romanzi Matilde edifichi, sì, il mito romantico-decadente della passione convulsa, quasi tetra, alla quale non ci si può opporre, passione travolgente, unica nella vita, ma leggiamo con chiarezza anche che il matrimonio è un patto senza amore dovuto a convenienza, una convenzione sociale[54], che la gelosia e l’egoismo sono caratteri distintivi dell’uomo, e che la passione, che pure è una “capacità” femminile[55], precipita le donne nella disperazione quando esse non la vivano come forza e come autonomia sentimentale ma come ricatto affettivo che finisce per essere autodistruttivo. Leggiamo che l’uomo non sposa colei per la quale nutre passione perché l’uomo non sposa colei che non può controllare, che la responsabilità del tradimento delle donne è del marito, che le donne che si separano e vanno via con l’amante (come fa anche Matilde) sono le più oneste perché non sopportano l’ipocrisia[56].  E perfino la distinzione, in apparenza sostenuta da  Matilde (ma, francamente in modo per lo meno risibile) tra persone comuni e quelle eccezionali, alle quali tutto è permesso, diviene, grazie a questa chiave di lettura, un ulteriore svelamento[57].

Matilde va cercata anche in libri o racconti poco conosciuti dal grande pubblico oggi[58]. Per esempio in alcuni racconti compresi nella raccolta Gli amanti. Dedicata a Eugenio Torelli Violler “con inconsolabile rimpianto”, la raccolta è, nella prima parte,  una piccola galleria di amanti : uomini imperfetti, tutti tristi e passivi, o troppo perfetti ma sempre parziali nel senso di “non interi”. Le storie, “confessioni” solitarie o ad una amica, raccontate in prima persona  dalla protagonista, diversa ogni volta ma sempre bella, giovane, piena di vita, legittimano tutte, in qualche modo, la libertà sessuale pari per uomini e donne, rivendicano la nozione di amore come unità tra passione e sentimento, sottolineano la limitazione maschile che invece separa le due sfere[59]. Dal quarto racconto si chiude la rassegna della tipologia degli amanti ma qualche altro racconto va segnalato : Nella via. Vicenzella,  quadretto di vita napoletana ; il tenerissimo La veste di seta. Madame la marquise,[60] ;  Un suicidio. Julian Sorel, esemplare di quanto si diceva all’inizio del fatto che gli uomini, per quanto disperati, non si uccidono mai ;  L’ineluttabile. Miss Geraldine, storia di una ragazza grassissima.. Questi racconti, misurati e ben scritti, ironici in modo sottile e allusivo, con una scrittura lontana da quella di certi  suoi romanzi troppo sovrabbondanti, ci aiutano a capire l’ironia di Matilde e mi sembrano una ulteriore conferma alle ipotesi fatte prima, a proposito di una sorta di svelamento nei confronti di rappresentazioni stereotipate di certa narrativa alla moda.

In quanto alla sua professione di giornalista[61], una rapida occhiata ai suoi interventi ci fa capire la funzione intellettuale e politica che svolse Matilde Serao, grazie ad una acutezza di sguardo e ad una sincerità propria della sensibilità e della passionalità femminile[62]. Matilde gioca a volte sul e con il sentimentalismo, ma senza mai cadere nel patetico, riuscendo così a cogliere delle verità di grande attualità. Si pensi al Ventre di Napoli. Nel 1884 c’è stato un terremoto che in pochi giorni ha provocato più di 6.000 morti. Depretis decide di “sventrare Napoli” e Matilde attira l’attenzione su che cosa effettivamente significhi quella espressione, su cosa sia effettivamente quel “ventre” di Napoli. Più tardi, sul “Giorno”, attaccando sindaco e assessori,  denuncerà che sullo “sventramento” si è speculato perché le case costruite per il popolo, il cosiddetto Risanamento, sono andate a tutti tranne che al popolo. Sventrare Napoli ha dunque gettato tantissime persone nella strada, obbligandole a dormire in tuguri, in baracche, nelle grotte, così immensa é rimasta la “miseria del lavoratore”[63]. Sul giornalismo,  Matilde scrive pagine importanti in I capelli di Sansone,  storia di Riccardo Joanna, figlio del mediocre giornalista Paolo[64] . Interessa poco qui verificare se il romanzo racconti un pezzo della sua storia (in qualche occasione Matilde ha negato che ci fossero rapporti, sebbene molti riscontri siano possibili : il padre mediocre e onesto giornalista, l’inizio della professione, le difficoltà, la passione, l’ambizione, vicende e sentimenti che appartengono a Matilde e che qui vengono narrate al maschile). Ciò che interessa è che, accanto alla sublimazione di eventi, di personaggi, di stati d’animo (l’atmosfera del giornale, l’odore della tipografia, le difficoltà economiche, la ricerca per recuperare soldi e far sopravvivere il giornale...), accanto alla glorificazione di quel mondo e di quel mestiere, c’è lo svelamento di quanto un giornale debba dipendere non da fatti ideali, ma da questioni economiche e politiche, dal cinismo imprenditoriale, dalle miserie della politica[65].

La forte unità tra la giornalista e la scrittrice (predilezione di certe tematiche, veemenza della parola, amore per la denuncia, carica ironica, passionalità) crea unità anche con la Matilde imprenditrice, fondatrice e direttrice di giornali. Matilde è la prima donna dell’Italia moderna a riuscire a portare avanti un progetto di visibilità e di attenzione a sé e alla propria opera. Anche in questo è anticipatrice : osa entrare in un mondo che non appartiene alle donne, osa usare gli strumenti  e i percorsi reputati maschili, comprende a pieno il valore (anzi : l’assoluta dominanza) dei mezzi di comunicazione di massa e riesce a creare una immagine di sé come risultato di un rapporto felicissimo tra il personaggio pubblico e la verità quotidiana, tra i suoi sentimenti e ciò che scrive. In breve: Matilde osa vincere.

 

2) I primi decenni del 900 : Lina Pietravalle e Clelia Pellicano

Passiamo ora alle  scrittrici che operarono dai primi decenni del 900. Le prime che presento, Lina Pietravalle e Clelia Pellicano, non sono nate in Campania, ma hanno Napoli come punto di riferimento culturale fortissimo e a Napoli passano molti anni, divenendo parte della sua cultura. Caratteristica comune é quella dell’attenzione al fatto letterario che ha come risultato una scrittura bellissima, matura, che accoglie finalmente con naturalezza il corpo nella scrittura[66]. Clelia, oltre ad essere scrittrice di narrativa, svolge una funzione intellettuale di grande rilievo, occupandosi pubblicamente di temi di forte dibattito di quegli anni[67].

 

Lina Pietravalle

Lina Pietravalle nasce nel 1890 o nel 1894 a Fasano, a Brindisi o a Otranto. Dopo aver vissuto per i primissimi anni nella sua terra, il Molise, scenario di tante sue opere, si trasferisce con la famiglia prima a Napoli e poi a Torino per qualche anno. Di nuovo in Molise, si stabilisce infine a Napoli dove muore nel 1956. Donna bellissima, arguta, colta, collabora a vari giornali del Mezzogiorno, scrive romanzi, racconti e libri per ragazzi. Conosciuta e stimata ai suoi tempi (di lei scrivono Flora, Pellizzi, Pancrazi, Falqui), da molti viene accostata a Verga e a D’Annunzio. Le sue opere più interessanti sono: I racconti della terra (Mondadori, Milano, 1924) e  Marcia Nuziale (Bompiani, Milano, 1932). Ma ricordiamo anche : Il fatterello, Novelle (Mondadori, Milano-Verona, 1928), Storie di paese Novelle (Mondadori, Milano-Verona, 1930), Le catene, romanzo (Mondadori, Milano, 1930), Molise, in Visioni spirituali d’Italia (NeMi, Firenze, 1931), Erbe amare (Ceschina, Milano, 1960, a cura di E. Falqui), Novelle molisane (Casa del Libro, Campobasso, 1975, a cura di N. Pietravalle).

Ne I Racconti della terra, Lina mostra stile forte, capacità di rappresentazione delle passioni, attenzione alla cultura popolare. Sperimentatrice e non tardiva seguace di D’Annunzio o di Verga, Lina Pietravalle inventa, per necessità poetica, il suo linguaggio. Che è autentico sia quando assume le caratteristiche di impasto linguistico e di grande fisicità delle rappresentazioni, sia quando, con modernità straordinaria a tutti sfuggita, Lina fa uso di una lingua ironica e svelta, disinvolta e agile. Certe scelte linguistiche ricordano D'Annunzio, ma rimandano più che all’esaltazione silvana del collega, all'intrinseco rapporto tra storia, personaggi e linguaggio che richiama la lezione verghiana, completamente trasfigurata dalla partecipazione da parte dell’autrice. In Marcia Nuziale, rinveniamo le due anime della scrittura di Lina. In alcuni racconti il delirio sensuale della parola giunge al vertice, dando vita ad una scrittura di grande fascino. Il “pasticcio” linguistico di gran classe congiunge miracolosamente fisicità e gioiosa ironia ed é quest’ultima a distaccarla totalmente ancora una volta da D’Annunzio. In altri, la tenerezza del ricordo si sovrappone alla voce narrante intrisa ancora di ironia e la scrittura si fa lieve, teneramente piana. In altri ancora, che raccontano l'infanzia di Lina, il padre, la madre, gli amici, i giochi, ma anche l’esperienza di una piccola “napoletana” al Nord , emerge soprattutto questa Lina prepotente e dispettosa, orgogliosa e stupendamente ribelle, tenera e ironica. Ed emerge  questo linguaggio, modernissimo e fresco, spregiudicato nel lessico e nel piglio narrativo.

 

Clelia Romano Pellicano

Clelia Romano Pellicano (pseudonimo Jane Gray, “la infelice regina artista e filosofa che a sedici anni pagò con la testa l’ambizione del padrigno Duca di Northumbeland”[68]) nata a Castelnuovo di Darenia in Puglia nel 1876 dai nobili G. Domenico Romano e Pierina Avezzana, sposa il marchese Francesco Pellicano, deputato al Parlamento. Vedova giovanissima, cresce sette figli e amministra da sola il suo patrimonio. Intanto vive tra la Calabria, Napoli e Roma, collaborando ad alcuni dei più importanti giornali dell’epoca, tra i quali “La Donna” di Torino e “La Nuova Antologia” di Roma, pubblicando racconti o resoconti delle sue conferenze nelle quali sostiene i diritti delle donne e illustra le condizioni di lavoro delle operaie soprattutto delle industrie calabresi. Ricca di notizie di grande interesse e con un taglio decisamente moderno e femminista è la conferenza Donne e industrie nella Provincia di Reggio Calabria, pubblicata in “Nuova Antologia” (Roma, 1907, arricchita nel 1918).  Nel 1908 Clelia pubblica due raccolte di racconti, entrambe rieditate nel 1918 : La vita in due e Novelle Calabresi. Entrambe le raccolte hanno successo e vengono lodate da Giannino Antona-Traversi, Sem Benelli, Valentino Soldani, Renzo Sacchetti, Luigi Capuana, Gerolamo Ragusa Moleti, Giustino Ferri, Ferdinando Martini e altri.  Di Clelia  si ricordano anche due romanzi : Gorgo e Verso il destino.

Se ne La vita in due l’ambiente é quello borghese, il tema preferito é l’amore, e il tono generale appare un po’ convenzionale, nelle Novelle Calabresi, Clelia trova la sua vena più autentica sul piano della scrittura, adottando a suo modo la poetica del verismo e attingendo alla sua terra e alla sua lingua. Ne viene fuori una scrittura forte, cadenzata dalla musicalità del dialetto, viva ed espressiva. Tutti i racconti partono dall’osservazione della realtà e la trasfigurano usando spesso l’ironia, oppure la rappresentano con forte senso drammatico reso più palpabile dall’apparente distanza della narratrice, che è in realtà pudore, rispetto, riguardo, per le infelici protagoniste (l’infanticida, la giovane stuprata che si suicida), tutte vittime di eventi  sui quali la letteratura tradizionale di quei tempi ha sorvolato. In La vita in due, pur nella apparente convenzionalità, molte novelle toccano argomenti (l’effetto distruttivo delle infedeltà vere o presunte dei mariti, le connivenze goliardiche tra uomini che appaiono qui volgari ammiccamenti nei confronti delle donne, un amore “illecito” tra due intellettuali su un piano di assoluta parità, eccetera) decisamente inediti per la tradizione italiana e svelano lo squallore di mentalità ritenute normali.

Come annotavo prima, Clelia, oltre ad essere narratrice, svolge una funzione intellettuale non di poco conto. Nella Prefazione su citata all’edizione del 1918 a La vita in due, Clelia fa un discorso molto interessante che evidenzia  tematiche attuali ancora oggi: la coscienza della differenza sessuale, l’esistenza di tradizioni femminili anche intellettuali, la guerra, l’amore, la funzione della letteratura, le capacità sottovalutate delle donne, il rischio della strumentalizzazione delle donne in tempo di guerra, la convinzione che un mondo, a cui possano partecipare con funzioni di responsabilità pubblica le donne, forse sarebbe migliore e abolirebbe definitivamente la guerra, eccetera. E l’elemento interessante (anche questo comune a tante altre scrittrici) è che le sue convinzioni nascono non solo grazie alla riflessione teorica sui grandi temi trattati, ma grazie alla sua stessa pratica di vita: la capacità della donna sola ad assolvere funzioni varie, da quelle tradizionalmente a lei affidate a quelle ritenute, a torto, “maschili”, è una capacità che Clelia ha dimostrato nei fatti.

 

3) Gli anni 30

Attorno agli anni ’30, anche nelle nostra regione, quello che altrove ho chiamato il cammino dei  desideri [69] delle donne (e dunque dei loro linguaggi e della loro produzione letteraria) viene frenato da una serie di fattori che  non è possibile identificare in questa sede. Certamente il fascismo attaccò le battaglie che le donne portavano avanti e cercò di demolire il nuovo immaginario femminile prodotto da anni di presenza attiva, di pubblici dibattiti, di questioni affrontate, di lotte per l’uguaglianza, per il diritto di voto, di istruzione e di occupazione, cioè attaccò la nozione di identità femminile intesa come soggettività che invece era presente e forte nella tradizione, e che, negli anni che fino ad ora abbiamo esaminato, si era espresso nella produzione letteraria e si era misurato in vasti dibattiti, ponendo anche in Italia questioni ricorrenti come il rapporto tra liberazione ed emancipazione[70]. E certamente influì sulla mentalità delle donne e degli uomini la fissazione dei ruoli sessuali e la propaganda di immagini femminili care al fascismo e agli scrittori che ne abbracciarono l’ideologia, vale a dire quelle della madre adorante e della sposa umile, entrambe dedite al maschio di casa, o, all’opposto, della virago o della “maschietta”, competitiva e birbante. Va detto che tutti questi ruoli assegnati erano, in realtà, la radicalizzazione deformata di effettivi comportamenti  femminili, dunque essi non furono del tutto imposizioni dall’esterno, sì invece furbe risposte ad una realtà esistente. Questa “frenata” fu possibile anche a causa di equivoci interni sia al movimento femminista,  che si spaccò su questioni come il diritto di voto e la legge sul divorzio, sia alla coscienza di molte donne che vissero l’illusione di un femminismo fascista.

Se questo è un fenomeno nazionale, in Campania la questione è più  radicale, per motivi troppo vasti per essere ora indagati.  Certo è che quando alla fine degli anni sessanta e soprattutto negli anni 70 le donne riprenderanno non solo a scrivere, ma a cercare identità e coerenza nella tensione di riuscire a dire la differenza, cioè di riuscire ad essere autentiche, a usare il proprio sguardo e ad accogliere nella scrittura il proprio contesto, dovranno in certo senso ricominciare da capo. Anche perché la normalizzazione non avrà colpito solo la produzione degli anni 30-60, sotto forma di censura pesantissima, ma avrà cancellato puntigliosamente ogni traccia della tradizione di soggettività forte.

Durante il triennio 1930-60, ad essere penalizzata sarà soprattutto la narrativa: nella saggistica troviamo donne di grande cultura e intelligenza, come nella poesia troviamo versi di grande finezza, quasi a testimoniare  che entrambi questi ambiti possano essere esercitati anche in tempi bui nei quali se non è possibile compiere grandi scarti sul piano dell’interezza (questione di  fondo di ogni scrittura di genere), è possibile lavorare per prepararsi a identificare gli spazi vuoti, il non detto.

Tutto ciò è ancora da studiare[71]. Per ora, ciò che mi interessa mettere in rilievo è che la produzione letteraria delle donne fu coinvolta da questa crisi e condizionata dalla mentalità corrente e segna dunque il passo rispetto alla importante produzione degli anni precedenti. Eppure, sebbene gran parte della produzione femminile, a partire dagli anni 30 fino agli anni 60, sia incline al fascino dell’omologazione, inteso in varia misura e in varia maniera, con inevitabile scadimento della qualità e della potenzialità, anche essa va ascritta in quel campo di ambiguità che è stato già segnalato. Infatti, in quasi tutta questa produzione è possibile rintracciare elementi non trascurabili di sofferenza dell’impedimento del dire, piccoli scatti nel  silenzio che sta a noi riuscire a leggere.

 

  1. a) La narrativa

All’inizio del secolo, assieme alle scrittrici di spessore sopra segnalate, troviamo opere decisamente brutte: tra queste, Maledizione (Napoli, 1907), o A colpi di spillo (Napoli, 1909), di Cesira Amenduni Tropea. Eppure anche qui vengono toccate, pur con una scrittura molto convenzionale, tematiche inedite e da un punto di vista femminile. Nel primo, per esempio, si racconta dell’amore tra un prete e una ragazza che fuggono dal paese e hanno un figlio. La rappresentazione della formazione di lui, votato dalla famiglia alla vita sacerdotale[72], ricorda la manzoniana persuasione di Geltrude (al maschile). La morte della donna e del figlio lasciano lo spretato in preda al rimorso e la lettrice (e il lettore) almeno con qualche dubbio riguardo alle convenzioni sociali. Il secondo, anch’esso lacrimevole, denuncia situazioni poco o mai trattate dalla letteratura nazionale, come: il prete che aggredisce Marcella, la protagonista, la condizione difficilissima delle donne sposate, tradite e abbandonate, la forza di ricostruire da sole una vita autonoma.

Negli anni 30, la narrativa possiede dunque le caratteristiche prima descritte. Esemplari , le opere di Giovanna Migliori che pubblica a Napoli, oltre a qualche raccolta di poesia, due opere di narrativa. Romanzo di maniera, Dionisia la luminosa non convince sul piano narrativo ma costituisce un documento interessante, una fonte per la conoscenza di miti e costumi di quegli anni. Migliore è  La marchesa Giorgina Leggeri  che, accanto alla convenzionalità dell’ambiente, ha una struttura narrativa più complessa e una scrittura più pulita. Entrambi sono testimoni del fatto che il mito della palpitante donna dannunziana che si dà tutta per amore ha ceduto il posto ad un nuovo mito femminile[73], quello, in qualche modo, speculare al consueto personaggio maschile (l’intellettuale colto, spesso aristocratico, un po’ deluso, scettico, smagato, descritto da tanti autori di ogni tempo e rappresentato, quasi sempre, con sadica ironia, dalle scrittrici). Nel secondo romanzo, infatti, la protagonista, che incontra a Capri la dolce e bella Marchesina Giorgina, è una scrittrice “maschile” nel senso ora detto : colta, intelligente, raffinata e un po’ cinica. Qualcosa passa tra le due donne e dopo qualche giorno Giorgina affida alla scrittrice il suo diario. In questo, le questioni interessanti sono: la figura del padre-padrone, l’angoscia generata dalle prime notti con il marito, la diffidenza verso il concetto di amore reputato cosa vergognosa[74]. Naturalmente continuano anche le banalità, prima fra tutte quelle lessicale del tipo: “corpo snodato di pantera”[75]

Molto diverso dalla tipologia dominante ora descritta è invece l’affascinante romanzo di Silvia Maria Flora, Gioielli di vetro, pubblicato a Cassino, nel 1938, dalla Casa Editrice Le Fonti. Nucleo della storia è la rappresentazione della protagonista, soggetto forte, che somma in sé il cinismo, il senso di onnipotenza, la coscienza del proprio valore, tutto al femminile. Questo libro è anche testimonianza di un fatto curioso : mentre infatti l’editoria napoletana, per quel che riguarda la narrativa femminile locale, è  convenzionale, ecco che da Cassino arriva un testo tanto moderno. A Napoli, negli anni 30, vengono pubblicate opere degne di attenzione, ma di non napoletane, segno insieme di provincialismo[76] e di apertura da parte di alcune Case Editrici napoletane e testimonianza dell’esistenza a Napoli di un pubblico legato a questa letteratura. Segnalo, per esempio, un piccolo gruppo di  romanzi, di scrittrici non napoletane ma di area meridionale, i quali hanno in comune il punto di vista (quello femminile), l’attenzione verso i destini delle donne, e in più una scrittura moderna, coinvolgente : La lavoratrice della terra (Tirrenia, Napoli, 1935) di  Maria Ruggero, abruzzese ; Il picco dei tre signori (Studio di Propaganda  Editoriale, Napoli, 1938)  di Francesca Agnetta, probabilmente siciliana ; Rosanna Alvisa (Studio di propaganda Editoriale, Napoli, 1938) della sarda Domenica Pinduccin.

Appartengono invece alla letteratura del dopoguerra due interessanti prove narrative sempre di non napoletane, stampate però a Napoli : L’arcobaleno di Wanda Wasilewska (Napoli, Fiorentino, 1944) romanzo “bolscevico”, dove la voce-donna è decisamente forte e contribuisce a momenti di identificazione da parte della lettrice che pure si sente distante per altri versi, e il bel romanzo della milanese Fausta Drago Rivera, La fortuna delle brutte, edito a Napoli da Marotta negli anni ‘50. In quest’ultimo, la scrittura forte e moderna racconta la crescita del capitale e dell’imprenditoria a Milano. La protagonista è una donna, non bella ma ricca di fascino e di spirito di iniziativa che riesce a diventare imprenditrice. Romanzo in certo senso di formazione: attraverso vittorie e delusioni,  assistiamo al lento consolidarsi, nella protagonista, di un cinismo, di moda probabilmente tra gli uomini ma qui tutto femminile, che ricorda, sia pure sviluppandosi secondo diversi percorsi, il romanzo, sopra segnalato, di Silvia Maria Flora.

Curiosità destano alcuni scritti di Maria Teresa Tettoni, a metà tra la saggistica e il racconto, per la difficoltà di assegnare loro una collocazione in uno dei tradizionali generi letterari, e per la godibilità della scrittura che rende accessibili anche argomentazioni scientifiche : Sessualità infantile (Estratto da Rassegna d’Ostetrica e Ginecologia, Napoli, 1933),  Maternità (Saggio sull’Asilo materno di Genova, Jovene, Napoli, 1933), Villa S. Anna (Estratto da rassegna di Ostetricia e Ginecologia, Iovene, Napoli, 1935). Maria Teresa ha pubblicato anche brevi racconti, di poco interesse, entrambi a Napoli, con l’editore Jovene : Il nastrangelo di Rosamunda (1933),  Il grande amore (1937).

 

  1. b) Biografie e saggistica

Fuori dalla collocazione dai canoni tradizionali, a metà tra la biografia di donne celebri e il romanzo, è anche la produzione che per brevità chiamerò “biografie”[77]. Tra le tante che ho ritrovato, segnalo Charlotte Bronte di Anna Caldara (Soc. Ed. Aspetti letterari, Napoli, 1934) tra le prime biografie in Italia sulla grande scrittrice inglese, come la stessa Anna sottolinea nella Prefazione; La dimora di Vittoria Colonna a Napoli (Napoli, Melfi e Joele, 1906) di Amalia Giordano, studio accurato sulla presenza di  Vittoria a Napoli, dalla fanciullezza agli anni maturi, che offre all’autrice anche l’occasione di raccontare un’epoca. E un’epoca viene fuori anche da Le tristi Reyne di Napoli (Coop. Tip. Sanitaria, Napoli, 1930) di Adele Scandone, che scrive di Giovanna III e Giovanna IV D’Aragona, dei loro matrimoni, di Lorenzo il Magnifico, degli intrighi della  corte napoletana. Esiti vari quelli delle opere di Giovanna Vittori, che vanno dall’interessante rassegna di donne sabaude Così la fanciulla, la Donna Italiana (Contessa, Napoli, 1934)  al racconto-storia La regina Elena (Pansini, Napoli, 1902) o  Margherita di Savoia (Scuola Pontificia, Pompei, 1935) fino a cadere con  Elena Seconda Regina (Tip. Pontificia, Napoli, 1937) per gli elogi al  Duce del tutto irragionevoli e che guastano anche la qualità della scrittura.

Una menzione particolare meritano gli scritti di Beatrice Gurgo, biografie di donne inserite nella collana Le vite d’eccezione, stampata a Napoli dalla Coop. Edit. Libraria negli anni 30. Il primo è Madame De Stael : qui Bice racconta la vita di Germana, da quando è bambina. La scrittura è tra saggio e romanzo, decisamente fuori dai canoni. L’altro è Eleonora De Fonseca Pimentel (1935), libro interessante, nonostante i difetti. La Eleonora di Bice è donna generosa e appassionata, travolta dalla politika degli altri, di quelli meno generosi e altruisti di lei.  Bella e intelligente, da giovane Eleonora scrive versi ironici e graziosi al cugino, sogna l’amore e crede di trovarlo in Carlo Tria che diverrà suo marito. Di Tria, Bice fa un ritratto di marito affettuoso che, quando muore, lascia Eleonora inconsolabile. Questa grossa svista, dovuta essenzialmente ad una mentalità ancora legata ad un immaginario tradizionale, non è tale da far trascurare l’importanza del lavoro di Bice[78]. Per lei raccontare la vita di Eleonora è anche occasione per ricostruire un ambiente, citando nomi e personaggi, colti nel loro fare domestico, quotidiano: Galiani, Jerocades, Teresa Fieschi Filangieri, la massoneria, Luisa Sanfelice, gli intellettuali del 99. E per  raccontare il re e la regina, nella loro quasi positività dei primi anni (e nella crudeltà dei successivi), così che capiamo meglio perché Eleonora e gli altri intellettuali dell’epoca potessero inizialmente illudersi della loro buona fede. Ciò che è particolarmente interessante è l’immagine dei Francesi a Napoli. Bice sottolinea la loro tracotanza, avvertita anche dai Repubblicani, oltre che dal popolo e dai contadini e ci presenta Eleonora non solo delusa dai Francesi, ma quasi in rotta con essi, insofferente della loro “estraneità”. Questo libro, allora, dà la spinta a cercare risposte più articolate e che meglio spieghino, per esempio,  la distanza del popolo dalla Rivoluzione. In quel periodo, Bice sottolinea, le tasse aumentano, ci sono varie forme di pagamenti, la condizione delle masse popolari non migliora. Qualcuno obietterà che Bice scrive in era fascista e che, per quegli anni, diminuire il valore dei Francesi e perfino dei patrioti del ’99, faceva parte dell’ideologia dominante, delle necessità propagandiste, ma certo questo libro è inquietante per gli schemi tradizionali. Ad esempio, Bice ricorda la distruzione della ribelle Andria da parte di Ettore Carafa, e sottolinea come Eleonora criticasse le leggi che permettevano gli eccidi delle popolazioni, e, convinta del ruolo educativo della cultura, volesse riuscire a persuadere gli abitanti. A mio avviso, è uno sguardo femminile questo che si posa sulla nostra eroina, sulla Storia, sul modo di leggere la Storia. Al di là delle ideologie, Bice, per la quale, come per Eleonora, valgono le parole di M.me De Stael (“un popolo è veramente libero quando si libera da solo”), rappresenta uno scenario di guerra, di lotte politiche, nel quale anche una parte dei Repubblicani risulta, assieme ai Francesi, distante e crudele come gli Italiani del Nord quando, con Garibaldi e grazie agli eccidi delle popolazioni, conquisteranno l’Italia Meridionale[79]. In questo scenario si muove, non a caso messa a fuoco da un’altra donna e rappresentata come “diversa”, la figurina di Eleonora, magra come un fanciullo, sognatrice. Il taglio dato, la scrittura, la cadenza narrativa pongono questi due libri come anticipazioni delle opere della Bellonci o della Banti. Beatrice Gurgo pubblicò anche un libro di poesie : Stelle innamorate (Coop. Ed. libraria, Napoli, 1938).

Vicina a Beatrice, per il taglio, per lo sguardo, per l’andamento narrativo e per i modi della ricerca, è Amalia Amadei Bordiga  che a Napoli, sempre ne “Le vite d’eccezione” della Coop. Libraria, pubblica in quegli anni[80] Maria Carolina d’Austria e il Regno delle due Sicilie[81]. Fuori dai canoni dei generi letterari, questa biografia, che sembra un romanzo, non vuole assolutamente, come precisa Amalia nella Prefazione, “riabilitare Carolina, ma leggerla come donna, madre, sovrana, che, troppo eccessivamente la Repubblica del ’99 demonizzò”.  Nella rivisitazione, che tocca Carlo III e certe responsabilità che non sempre gli storici gli hanno attribuito, Tanucci e il rapporto con Ferdinando e poi con Carolina, le leggi promosse dai Borboni, le figure degli intellettuali, ma tocca anche certi momenti significativi come il processo e la condanna di Vitaliano, Galiano e De Deo, il rapporto tra Carolina e Lady Hamilton, eccetera, l’impegno centrale da parte di Amalia è quello di cercare di fare propri i sentimenti di Carolina. Arrivata a Napoli giovane, bella e abbastanza colta, per sposare un  Ferdinando male educato, viziato, ignorante, eccetera, Carolina la “straniera” progressivamente accentuerà il desiderio di dominio e sempre più rimarrà stretta tra ambizione e timore di perdere tutto, tra dolore per la morte della sorella, desiderio di vendetta e ripulsione crescente per i rivoluzionari. A guidare Amalia è la ricerca storiografica, ma anche, in certi casi, uno sguardo che a qualcuno apparirà di semplice buonsenso femminile[82]. La storia di Carolina si chiude : Ferdinando nel 1813 le ordina di allontanarsi da Napoli e Carolina morirà a Vienna, sola.

Qui non mi interessa stabilire la credibilità delle affermazioni o dimostrazioni di Amalia : registro che è forse l’unica, tra donne e uomini, a studiare la terribile regina cercando di capirne i processi mentali e le motivazioni dei comportamenti. Inoltre credo che, in certo senso, questo lavoro sia anche una lezione pratica di ciò che tante volte viene ripetuto da molte di noi, studiose femministe. E che cioè, all’interno della differenza di genere, esistono tante e articolate differenze, come tante e articolate differenze esistono in qualunque altro sesso. Amalia Bordiga scrive anche un romanzo Miele e assenzio (La prora, Milano, 1936).

Di tutto altro genere, ma interessante e dal taglio moderno Saffo (Libr. Scientifica Ed., Napoli, 1945) di Lidia Massa Positano,  per la capacità di questa studiosa di leggere la grande poeta con un taglio decisamente femminile.

Una menzione particolare merita anche Irma Melany Scodnik. Scrittrice appassionata, femminista, si interessò tra l’altro delle condizioni delle prostitute e del voto alle donne. Di Irma cito : Nelle isole Eolie. Osservazioni sui condannati al domicilio coatto (Cozzolino e C. Napoli, 1900), Un precursore : Salvatore  Morelli[83] (Chiaruzzi, Napoli, 1903), La donna elettrice,  Conferenza ( Paravia, Napoli, 1906), Geografia e diplomazia (Cozzolino, Napoli, 1910 (2° migliaio), Salvatore Morelli (Albrighi-Segati e C., Ro-Mi-Na, 1916), Voci dell’altra sponda (Tip. Errico, Napoli, s.d.,  ma successivo al 1918), Una revisione che s’impone (Cozzolino, Napoli, 1921), N. Tommaseo alla difesa di Venezia (Cozzolino, Napoli, 1923) [84], E. Pimentel Fonseca, Conferenza (Cozzolino, Napoli, 1925 ), e infine la Prefazione a un libro di Achille Imbriaco : La questione femminista (Vedova Ceccoli e figli, Napoli, s.d. , ma poco prima del 1923).  E’ in questa Prefazione che Irma mette a fuoco una serie di punti essenziali, allora dibattuti dal movimento delle donne a livello internazionale : la corruzione dei politici, le nefandezze delle guerre, la difficile presenza nel mondo del lavoro per le donne nubili, la tendenza all’acquiescenza da parte delle donne, e, centrale, la questione del voto, ma anche dell’eleggibilità delle donne[85]. Sul femminismo a Napoli, sulla ripresa del dibattito riguardo l’educazione delle donne, segnalo anche: Un rapido sguardo ai convitti femminili, di Carolina Bellucci Sessa (Melfi e Gioele, Napoli, 1913). Mi sembra anche interessante La donna meridionale nell’industria e nel commercio  di  Alda Rossi. Estratto da Questioni meridionali (SIEM, Napoli, 1936, anno III, n. 2), è uno studio accurato con tabelle e grafici.

Naturalmente andrebbe trattata la presenza a Napoli di  tante altre studiose e intellettuali di grande valore, che lungo l’arco del 900 (e alcune fino ai giorni nostri) non solo hanno lasciato segni profondi della loro opera in vari campi, ma hanno costruito una rete (riconosciuta o sotterranea) che è stata, a volte al di là delle intenzioni, punto di riferimento per le donne degli anni successivi. Cito tra le tante per lo meno Emilia Nobile[86], M. Antonietta Pagliara[87], Claudia Ermelinda Pappacena, Olga Arcuno, Marussia Bakunin, Alda Croce, Elena Croce, Cecilia Dentice di Accadia[88], Guerriera Guerrieri...

 

  1. c) La scena e la letteratura teatrale

Tra fine 800 e inizio 900,  le cantanti, le sciantose, le attrici, permearono di sé l’atmosfera della metropoli. Studiosi, studenti, artisti, intellettuali, andavano ad ascoltare[89] le cantanti  Adriana Martino, Pina Lamara,  Amelia Faraone, Amina Fargas. Andavano ad ascoltare la famosa cantante lirica Madama Bertini, applaudivano Lina Cavalieri e Ersilia Sampieri, entrambe non napoletane ma che avevano canzoni napoletane in repertorio. Tra le sciantose napoletane furono famose Maria Campi, che inventò la mossa, Lucia Valeri, Rosetta Dei, Anna Fougez. All’inizio del 900 la  sciantosa più amata, Elvira Donnarumma, considerata la più importante cantante italiana di quel periodo, è amica di Eleonora Duse e di Matilde Serao. Cantante famosa dell’epoca è anche Ester Baroni. Regina degli emigranti fu definita in America Gilda Mignonette, nata alla Duchesca, da un professore di Liceo e da una marchesa. Infine ricordiamo Luisella Viviani, sorella di Raffaele, famosa cantante popolare e attrice di prosa. E come non valutare l’importanza nell’immaginario collettivo di attrici come Elvira Notari, Francesca Bertini, Titina De Filippo, Tina Pica, Pupella e Rosalia Maggio, Concetta Barra, Luisa Conte, Regina Bianchi, eccetera ?[90].

Va anche ricordato che, nella tradizione meridionale, ancora fino a pochi anni fa, alle signorine di buona famiglia si faceva studiare il pianoforte e si permetteva che si dilettassero a organizzare rappresentazioni teatrali nei salotti. A Napoli, in particolare, era viva la tradizione musicale, tanto quella popolare tanto quella colta, grazie anche alla presenza, molto significativa, del Conservatorio. Sebbene pochissime ragazze avessero l’occasione di intraprendere una vera professione, resta però che molte erano abbastanza brave da cantare, accompagnare a pianoforte e comporre esse stesse canzoni, musica e parole[91]. Tra le tante cito: (per la musica) Maria Vernale, Tamàra Mormone, Livia De Martino, Flora Spanò ; (per le parole) Antonietta Preziosi : (per musica e parole) Jole Monterosa, Anna Trolj De Caesaris, Ermelinda D’Albore...

Per quel che riguarda la letteratura teatrale, una scrittrice di grande interesse è certamente Anne Charlotte Leffler[92]. Nata a Stoccolma nel 1849, bellissima, intelligente, colta, Anne Charlotte sposa a Napoli in seconde nozze, nonostante l’avversione da parte della aristocrazia napoletana, Pasquale Del Pezzo, duca di Caianello, e a Napoli vivrà fino alla morte,  nel 1892. A lei Fanny Salazar dedica un necrologio che fa giustizia della sua arte e della sua dolcezza e fermezza. Tra le sue opere, stampate prevalentemente postume, segnalo In lotta con la società (Alvano, Napoli, 1913, con Prefazione di S. Di Giacomo), Come si fa il bene. Commedia in tre atti (Pierro, Napoli, 1892, e II ed. 1915), Il viaggio della Verità, dramma fantastico in 5 atti ed epilogo (B. De Rubertis, Napoli,  1915), e la bellissima Biografia di Sophie Kowalewsky[93].  In molte sue opere, Anne Charlotte affronta il tema del dissidio tra ricerca della Felicità e necessità di restare fedeli a se stesse, sempre mettendo in scena con ruoli di assoluta preminenza i personaggi femminili. E’ questo il tema centrale anche di Il viaggio della verità, dove la  storia, che affronta una problematica ancora attuale e per quei tempi estremamente moderna,  è tutta giocata sul simbolico e sulla metafora, sottintendendo un discorso etico-filosofico difficile da riassumere. In un regno immaginario Vera è scambiata all’inizio con Speranza, promessa sposa di  Salvatore, che dovrà generare il Principe Felice affinché porti  benessere al Paese. La diversità tra Vera e Speranza è verificata sempre in situazioni legate alla realtà sociale: per esempio Vera inorridisce vedendo un corteo di operai e operaie poveri e smunti, e con le sue dichiarazioni si contrappone a quanti raccontano chiacchiere, e naturalmente si contrappone anche a Speranza. Come si contrappone a Speranza quando, trovandosi in Yugoslavia, mentre Speranza, raccogliendo applausi, dà per imminente la fine delle guerre tra Serbi e Bulgari, Vera rimprovera ai Serbi  l’arroganza e la meschinità e ai Bulgari la presunzione e l’orgoglio. Con l’atto IV siamo in epoca moderna e diviene ancora più chiaro che la Verità uccide la Speranza (oggi si direbbe : l’ottimismo, il buonismo). Vera e Salvatore (che, dopo molti dubbi, ha compreso di amarla) sono due scienziati (naturalmente con un rapporto di piena parità) che hanno inventato dei globuli della vita che però, come presto comprende Vera, dopo aver curato le malattie, mangiano se stessi. Tutti i pazienti muoiono e Vera, smarrita, decide di andare da Satana, da molti reputato suo padre. Ma anche l’Inferno è una delusione e Vera, sbalordita di ritrovare un immaginario fedele alla finzione dantesca, rifiutando Satana, la Chiesa, le superstizioni religiose, il secolo moderno e tanto razionale, le favole, ritorna sulla terra, a Londra, nel mondo del “capitalismo sfruttatore degli operai”. Acceso da convinzioni marxiste, Salvatore arringa il popolo, ma Vera dubita ancora,  sebbene lei stessa abbia iniziato lo svelamento dei meccanismi del capitalismo. Ultima scena è in Paradiso, dove Speranza e Fortunio, il marito,  sono accolti, ma Vera, che non vuole inchinarsi a Dio senza vederlo, viene scacciata.

Intorno agli anni 30, tra le poche che ebbero il permesso o l’opportunità di scrivere per il teatro in modo professionale, troviamo Paolina Riccora (pseudonimo di Emilia Vaglio Capriolo).  Esperta di lavori teatrali in napoletano, trasposizioni e  adattamenti, Paolina, sposata a Paolo Riccora, anche lui autore teatrale, con il suo lavoro riscuote successo, come testimoniano le recensioni sui giornali (“Giorno”, “Mezzogiorno”). Assieme a Carlo De Flaviis, scrive Nonna Nonna! Dramma (Gennarelli, Napoli, 1920), che mette in scena una prostituta che uccide la figlia lattante per impedirle di vivere una vita come la sua. I toni qui sono da Gran Guignol, e certo Paolina pecca di  populismo, ma mostra anche sensibilità e attenzione per eventi che appartenevano alla cronaca[94] e che erano affrontati dal movimento delle donne in Italia e all’estero. Per il resto la sua vasta produzione è soprattutto fatta di commedie, alcune graziose e di facile successo.

Più interessante è Maria Pia Lombardi De Maria, che pubblica vari testi teatrali, tra i quali Tutto in rosa. Umorismo al 100 per 100 - Raccolta di commediole, scenette, dialoghi, monologhi, adatti per il teatro, convitti, istituti, serate e salotti (CLET, Napoli, 1935). Tra i pezzi proposti, delizioso è Lo sciopero di Fortunello e i suoi compagni: sciopero dei personaggi del Corriere dei Piccoli. Non privo di interesse è anche il Monologo su Napoli e qualche altro. E’ da notare che, tra varie sottili puntatine sul fascismo, in alcuni pezzi troviamo, assolutamente fuori posto, encomi del Duce o dei Balilla talmente estasiati da costituire, già a quei tempi, elementi di comicità. Complessivamente il linguaggio è veloce, i tempi ben ritmati, le trovate non di repertorio, bensì rappresentative di un’ironica messa in scena del sentimento di incertezza che molti avvertivano tra il fascino del nuovo e la nostalgia del vecchio mondo, tra tecnologia e autenticità.

E’ con Nei vortici del 2000 (Clet, Napoli, 1934) che Maria Pia scrive un pezzo assolutamente delizioso. Nel suo 2000 ci sono gli automi (perfetti e di marca italiana), la totale emancipazione delle donne (c’è l’avvocatessa, la perita, cioè l’operaia specializzata, e così via) e la loro assoluta supremazia in tutti i concorsi, esami, posti di responsabilità, e ci sono:  lo psicofotografo che legge i pensieri, l’ibernazione, la chirurgia plastica, l’arresto della giovinezza a 25 anni (presso L’Istituto di giovinezza), velivoli al posto delle auto, un microfono in tutte le case che porta gli avvisi del Capo che sente tutto, il Sole artificiale, il divorzio, la Confederazione europea e la lingua europea, la Biblioteca parlante, la televisione, il cinema, i marziani, l’onnipotenza dei mezzi di comunicazione di massa. Inoltre gli operai arrivano entro 10 minuti altrimenti sono multati, gli uomini vanno su Marte, ci si veste con tute tutte uguali, non c’è più la moda, non ci sono più scioperi (è vietato), le industrie sono riunite in un grande Monopolio Governativo, non esiste la pensione perché tutti devono sempre lavorare, si mandano al confine gli uomini inutili, ci si nutre con pillole, la Groenlandia è la nuova colonia civilizzata dagli italiani, c’è un totale Statalismo su cui M. Pia ironizza e che ricorda il mondo del Grande Fratello di Orwell. Alla fine della commedia, il 900 viene proclamato “secolo del Duce”, anche questa volta usando ambiguamente paroloni davvero esagerati.

Credo sia interessante anche ricordare che a Napoli Benedetta Marinetti, non napoletana, pubblica varie cose. Tra queste:  Astra e il sottomarino. Vita Trasognata (Casella, Napoli, 1935) e Viaggio di Gararà. Romanzo cosmico per teatro (CLET, Napoli, 1942, ma rappresentato già prima del 1935). Benedetta, scrittrice, pittrice, artista complessa già conosciuta e stimata prima dell’adesione al futurismo e prima del matrimonio con Filippo (come sottolinea anche F. Orestano nella Prefazione al  Viaggio di Gararà), è effettivamente un’autrice che andrà studiata con attenzione. Certamente essa partecipa in maniera autentica al Futurismo che a Napoli ha una forte e originale presenza. Tra le sue opere, ricordo: “La forza umana. Romanzo” (Campitelli, 1924), che presenta una scrittura modernissima ; Velocità di motoscafo, pittura futurista (Museo Mussolini, Roma), Prendendo quota, aereopittura futurista (Milano) ; Il grande x, pittura futurista (Galleria moderna di Grenoble) ; 5 Pannelli delle comunicazioni terrestri marine aeree telefono telegrafo radio (Palermo). Delle opere stampate a Napoli, Astra e il sottomarino, racconto dal linguaggio estremamente vivo e moderno,  porta una breve e interessante dedica al marito, mentre  Marinetti e il già citato Orestano scrivono una Presentazione al Viaggio di Gararà[95]. L’opera è affascinante : Gararà è personaggio astratto , una vecchia deforme, simbolo di una filosofia di vita, come tutti gli altri esseri mostruosi che popolano la scena. Giochi linguistici, disegni, esaltazione della creatività, portano il segno di un ingegno vivace, tutto da studiare.

 

  1. d) Poesia, Favole, Cinema

In quanto alla poesia, mi limito a citare, tra i tanti, almeno i nomi di  Amalia Giordano, Margherita Califano, Paola De Martino, Anna Severino, Mariuccia Piceni, Maria Dolores Manetta, Elvira Mango, Laura Serra, Libera Carelli, Lia Valle, Emma Gianturco, M. Luisa D’Aquino. Infine, favole per bambini scrivono, con esiti diversi, Elda Contessa Di Montedoro, Adele Jemolo Morghen,  Giuseppina Del Vecchio, Lia Valle (Zietta Liù). Esemplare dell’attenzione al cinema da parte delle donne, c’è l’interessante raccolta Tre soggetti per lo schermo (Progresso, S. Maria Capovetere, 1942), di Alfonsina Signore. Storie d’amore ingenue, con la protagonista sempre in primo piano, giovane, spigliata, spiritosa, contro le regole e le convenzioni.  L’autrice presenta in modo molto professionale e moderno soggetto,  racconto molto dialogato quasi una sceneggiatura, elenco dei personaggi e dei luoghi, note di regia.

 

4) Dagli anni 70 ai giorni nostri

Ho scritto che le donne, quando negli anni 70 hanno ripreso a scrivere, hanno dovuto iniziare da capo. Naturalmente è una esagerazione. Intanto perché le donne hanno continuato a scrivere anche negli anni in cui il cammino dei desideri  era stato interrotto, e poi perché, conservandosi sempre nei geni memoria del passato, della cultura, della tradizione, esistono sempre fili di continuità e comunanze, al di là di ogni proibizione, di ogni cancellazione. Esistono memorie tramandate da madre in figlia, storie di vita, di esperienze, storie fantastiche, che hanno nutrito l’infanzia di tutte quelle che successivamente hanno sentito la necessità della scrittura. Esistono sentimenti, aspettative, desideri, profondi e misteriosamente attivi, anche quando (come nel caso dei  ruoli sessuali), si appartenga a una cultura che ha perpetuato una storia di invisibilità.

Il racconto orale, come ho già accennato, i gesti e i comportamenti sono sempre presenti nella memoria e nella pratica femminile. In questa memoria si denunciano le sconfitte o le assenze, ma si tramandano le scelte, la forza, l’astuzia, la capacità di amore e di accoglienza, la centralità. Dunque le nostre scrittrici, e le nostre studiose, noi insomma, abbiamo cominciato da capo nel senso che ci siamo dovute rimpadronire della coscienza della continuità (che, ripeto, possediamo di fatto iscritta sul nostro corpo e nel nostro cuore e che ha generato noi, così come siamo), per poter poi riprendere il cammino dei desideri e andare avanti. Per poter agire e valorizzare i nostri gesti, abbiamo dovuto “onorare le nostre madri”[96]. Ci siamo dovute rimpadronire della nostra storia della quale nei libri che abbiamo studiato non c’era cenno. Abbiamo dovuto capire di nuovo (ri-accogliere) capacità che già avevano prodotto saperi nel passato. Abbiamo dovuto rieducare le nostre voci, troppo flebili o troppo stridule, insicure.

La cancellazione che ha colpito le donne del passato[97] (le scrittrici, le intellettuali, le artiste, le politiche, eccetera, ma anche le donne come forza centrale di equilibrio nel vivere quotidiano) ha nociuto, oltre che alla loro memoria, alla storia delle altre, cioè di tutte. E anche di tutti. Perché quella cancellazione ha rallentato la nostra capacità di lettura e di ascolto nei confronti della loro voce (e delle voci del mondo), ostacolando la creazione di una rete fatta anche di piccole presenze che però creano tradizione, forza[98] per tutte, e di sperimentazioni come patrimonio visibile per tutte.

Eppure, in Italia sono esistite, lungo tutto l’arco del 900, oltre a quelle sopra segnalate, figure straordinarie di scrittrici che, per chi abbia la fortuna di conoscerle e la  capacità di amarle, tramandano un rapporto con il linguaggio della parola che supera quel “silenzio delle donne” al quale tante volte si fa riferimento. Certo, nella scuola, o nella cultura media di coloro che leggono, perfino queste scrittrici continuano a essere figure sconosciute o secondarie, e questo è grave. E non solo per queste scrittrici, ripeto, ma per quelli e quelle che le ignorano, perdendo in questo modo l’opportunità di leggere il mondo da punti di vista altri da quelli consueti[99], mondo formalizzato ad altissimo livello poetico.

Due tra le maggiori scrittrici italiane, non  campane di nascita, ebbero con Napoli e con la sua cultura  molto a che fare e certamente molto hanno regalato a Napoli e alla sua cultura: mi riferisco naturalmente a Elsa Morante e a Annamaria Ortese, figure eccezionali nella cultura contemporanea. Entrambe spiccano, tra scrittrici e scrittori d’Italia, per la straordinaria qualità della scrittura, per la purezza e l’autenticità delle ragioni narrative, per l’invenzione e lo scarto della loro forza poetica. Di entrambe è impossibile qui trattare perché entrambe, pur così diverse l’una dall’altra ma dai legami sotterranei che sempre me le hanno fatte in qualche modo collegare, sono scrittrici di tale livello e sarebbero talmente tante le cose da chiedersi, da indagare, da segnalare, da additare, da precisare, essendo scarsissima la bibliografia che le riguarda, che posso solo augurarmi che, presto, molte di noi studiose e molti studiosi abbiano la capacità di raccontare le possibilità di incanto che contengono le loro scritture, per donare la gioia grande di leggere i loro libri ai giovani, prima che divengano preziosi cimeli di amorose cultrici. Non posso, però, non segnalare come alla prima, pure amata anche da qualche studioso, qualche improvvido continui a pensare come alla “moglie di” quel noioso scrittore (che pure possedette pregi) che fu Moravia. In quanto ad Annamaria Ortese, che nella nostra città soggiornò e dalla quale fuggì, non amata, è estremamente riduttivo segnalare, come pure alcuni fanno, il suo rapporto con la nostra cultura, circoscrivendolo a Il mare non bagna Napoli e al Cardillo innamorato, due capolavori assoluti. Credo che ancora non si sia in grado di fare i conti con la poesia delle loro pagine, che, se troveranno lettrici adeguate, continueranno per sempre a svolgere quella altissima funzione, che già, di fatto, hanno svolto e continuano a svolgere.  L’intero impianto narrativo, il lavoro sul linguaggio, la tenerezza del lessico, la disperante malinconia, che entrambe (ripeto: pur diverse) possedettero e seppero consegnare alla scrittura, dovrebbero farcele sentire concittadine, sorelle, amiche, maestre, proprio per quel loro essere senza patria (nel senso di “al di sopra di ogni patria”)  come è nella migliore tradizione meridionale. Tra gli elementi di grande fascino della produzione di Elsa e di Annamaria c’è anche quell’essere sempre in divenire senza mai acquietarsi in un “genere” e in una “modalità” narrativa, ma sempre sperimentando, in un lavoro di  approfondimento, all’interno del proprio animo e all’esterno come sguardo sul mondo, così acuto e intero da spaventare, da far serrare gli occhi.  Credo che la sfida più importante che entrambe fecero fu quella di coniugare la disperante dolcezza dei sentimenti, la visione amarissima dell’esistenza e della storia, con il senso fanciullesco, pulito, vergine, dell’utopia più grande. In epoche in cui molti intellettuali, artisti, scrittori, del nostro paese, hanno cercato di offrire, a volte con esiti interessanti, come definitiva l’equazione arte = freddo svelamento, gioco intellettuale, compiaciuta denuncia della corruzione, queste due donne sono riuscite a diventare “simili alle dee”, cioè a creare un mondo che prima non c’era e ora c’è: la loro poesia.

Se gli anni 70 furono anni di grande sovvertimenti e di riscoperte e invenzioni, sarà dagli anni 80 che una nuova generazione di scrittrici comincerà a darsi da fare per pubblicare e qualcuna ci riuscì, naturalmente rivolgendosi ad editori del Nord. Per il resto, piccoli editori pubblicarono anche nella nostra regione libri più o meno riusciti, più o meno interessanti, alcuni molto belli, altri molto meno. Mi piacerebbe molto accennare, sia pure rapidamente, a questi scritti (romanzi, racconti, raccolte di poesie) che negli ultimi decenni si sono moltiplicati, ma, come ho precisato all’inizio, la mia scelta (dovuta) è stata altra. Così mi limiterò a segnalare, purtroppo molto velocemente, alcune delle scrittrici che, per diversi motivi, hanno voluto e saputo conquistarsi spazio e attenzione. Di queste, nessuna ha esordito pubblicando nella nostra regione, e solo due continuano a vivere qui. Le altre sono andate via da tempo.

Nel 1981 Fabrizia Ramondino[100] pubblica, presso Einaudi, Althénopis. Seguono, tra altre: Storie di patio (Einaudi, Torino, 1983), Taccuino tedesco (La Tartaruga, Milano, 1986), Un giorno e mezzo (Einaudi, Torino, 1988), Dadapolis. Caleidoscopio napoletano, scritto con Andrea Friedrich Muller (Einaudi, Torino, 1989), Star di casa (Garzanti, Milano, 1992), In viaggio (Einaudi, Torino, 1995), L’isola riflessa (Einaudi, Torino, 1998). Fabrizia è tra quelle scrittrici che preferiscono essere chiamate “scrittore”, eppure nei suoi romanzi il soggetto donna, il punto di vista del soggetto, cioè della donna che è Fabrizia, é in assoluto primo piano, e segna via via l’evoluzione della percezione di sé e del mondo che la scrittrice compie. Grazie alla capacità (che è andata crescendo con gli anni, con le vicende della vita, con la riflessione sull’esistenza, con l’elaborazione della scrittura) di spogliarsi di sovrastrutture, di edificare un discorso etico di grande forza e presa intellettuale, sostenuto sempre dalla cultura, dalla conoscenza e dalla passione della ricerca, Fabrizia arriva sempre alla rappresentazione di un universo:  verticale quello di Althénopis, trasversale quello di Un giorno e mezzo o di Star di casa, straordinariamente compiuto in molte pagine di Il viaggio o di L’isola riflessa. In certo senso, il suo sguardo, assieme alle sue storie, partendo da rappresentazioni (del sé e del mondo che lo riguarda) poste come emblematiche di un’epoca e di una  generazione (soprattutto in Althénopis e in Un giorno e mezzo), si è andato via via spostando ad esplorare il mondo e la realtà circostante, per ritornare, nelle ultime opere (In viaggio e L’isola riflessa), a far i conti con il nudo “io”, smarrito e dolorosamente attento a far i conti con se stesso e con ciò che resta del mondo sognato. Contemporaneamente la sua scrittura ha lavorato sempre più sulla parola, dalla esuberanza delle prime prove alla scarna e profonda incisività delle più recenti che presentano pagine di bellezza assoluta, commovente.

Nel 1992, con le edizioni e/o, esce a Roma L’amore molesto, di Elena Ferrante[101], della quale, in copertina, si dice che ha vissuto a lungo a Napoli e che risiede da tempo in Grecia. Anche in questo libro la protagonista  è una donna, anche in questo libro lo scenario è dato dalla città, e il recupero della memoria familiare, della figura materna, delle vicende che hanno segnato sin dalla fanciullezza la protagonista, sono al centro dell’interesse di chi scrive. La presa di coscienza dell’affettività nei riguardi della madre, lo svelamento e l’accettazione della ambiguità del loro rapporto, causa ed effetto del progressivo riconoscimento di sé, danno vita a una scrittura calda, appassionata e trepida, funzionale ad una storia che, in più, grazie a stacchi e inquadrature su particolari apparentemente insignificanti, appare quasi sceneggiatura cinematografica[102].

Nel 1993, vince il Premio Bancarella La bruttina stagionata (Bompiani, Milano, 1992) di Carmen Covito[103]. Carmen, a modo suo, cioè grazie ad una scrittura veloce, a un piglio sbrigativo, leggero e duro, a situazioni e tematiche inedite, esplora una modalità narrativa non assente nella complessiva produzione femminile italiana ma certamente meno frequentata e conosciuta. E, nel farlo, pur nell’apparente leggerezza, affronta il tema della mentalità (maschile e femminile) e fa i conti anche lei con l’educazione e con la famiglia, con la madre. Il racconto di Marilina, ricco di ironia e di autoironia, ha modo di cogliere e di formalizzare, pur tra le tante affermazioni di distanza dal femminismo, un’altra modalità di sguardo femminile, un altro percorso di liberazione, altri squarci di malinconia. Dopo il secondo romanzo, Del perché i porcospini attraversano la strada (Bompiani, Milano, 1995), nel quale ancora Carmen mette in luce i mutamenti delle mode e dei comportamenti, nel 1997, sempre con Bompiani, pubblica Benvenuti in questo ambiente, anche questa opera allo stesso tempo demenziale, intelligente, cruda e malinconica.

Nel 1995, Maria Orsini Natale[104], pubblica Francesca e Nunziata (Anabasi, Milano, ma poi Avagliano, Cava de’ Tirreni, 1998) ) che, finalista al Premio Strega, vince nello stesso anno il Premio Oplonti e il Premio Domenico Rea e, nel 1996, il Premio Chianti Ruffino. Nel 1998 esce il secondo romanzo, Il terrazzo della Villa Rosa (sempre con l’editore Avagliano), che conferma le qualità della scrittura di Maria, e cioè il felice connubio tra cultura, sapienza narrativa e memoria del ritmo orale. Il primo romanzo ruota attorno alle vicende di due donne,  Francesca e Nunziata, e racconta, lungo l’arco di un secolo, dal 1848 al 1940, la storia di una famiglia, l’avvicendarsi di generazioni, gli eventi storici che colpiscono e segnano il Sud. La produzione della pasta trova in queste pagine la sua epopea e diviene emblematica della nozione di “cultura popolare meridionale” : produrre la pasta è saper leggere i segni della natura, prevedere la pioggia, la siccità, il calore, l’umidità. Entrata in crisi con l’avvento delle macchine, con la competizione con un Nord industriale, con la inevitabile perdita dell’arte artigianale, questa cultura, racconta Maria, saprà trasformarsi, “reggere il mercato”, conservando una sorta di nostalgia per lo stile, per le relazioni, per i saperi di un tempo. Francesca e Nunziata diventano, una dopo l’altra, imprenditrici, centro della famiglia e dell’impresa, centro di calore e di amore. Il rapporto tra loro è rapporto di genealogia femminile che, neanche sfiorato dai litigi della famiglia, crea un profondo e pudico legame tra le due donne e tra esse e la terra, la casa, il lavoro. Lontana dagli ideologismi e dagli intellettualismi, Maria, grazie alla sua cultura, coglie il senso del processo unitario, il formarsi della camorra, il pieno valore di una civiltà intelligente e generosa. Le metafore nuove e illuminanti anch’esse testimoni delle tradizioni, degli usi, dei caratteri popolari, l’uso sapiente, a tratti nel discorso diretto o come citazione, della lingua napoletana, la capacità di fermare e rappresentare i gesti, i moti dell’animo, grazie a parole-figure, a immagini più che a idee, a elementi connotativi e poetici più che intellettuali  o denotativi, permettono a Maria di scrivere questo bellissimo libro senza mai cadere, neanche per un momento, nell’idilliaca nostalgia del passato. Anche il secondo libro, Il terrazzo della Villa Rosa (Avagliano, Cava de’ Tirreni, 1998) conferma le qualità della scrittrice. Anche qui luminosità, colore e calore si fondono nella malinconia di un passaggio epocale che questa volta è l’ultima guerra, la resistenza, il dopoguerra. Anche qui il rapporto tra il vivere quotidiano, l’arguzia e la sapienza popolare da una parte e la Storia con i suoi eventi minimi e quotidiani dettano a Maria pagine di grande presa con in aggiunta una sorridente capacità di usare, anche nelle grandi utopie, la grazia della leggerezza.

Grazia e leggerezza, assieme a un  forte tessuto civile, sono caratteristiche della scrittura di  Luciana Viviani[105], la quale, dopo aver pubblicato Rosso Antico. Come lottare per il comunismo senza perdere il senso dell’umorismo (Giunti, Firenze, 1994), nel 1997, sempre con Giunti, pubblica Le viceregine di Napoli. Qui, sullo sfondo di una rivisitazione di Napoli, dalla fine dell’Ottocento fino agli anni ’50, campeggiano Mariuccia e Fafina, indimenticabili figure femminili, ribelli e appassionate, esempi di soggetti forti, tipici della tradizione meridionale anticonformista. Anche questo libro si colloca dunque in questa produzione femminile, attenta a rileggere la storia personale, della famiglia, e, attraverso essa, la storia sociale e civile di un tempo e di uno spazio, con uno sguardo nuovo, debitore della realtà e della tradizione narrativa (anche orale) femminile.

Alla rappresentazione di un ambiente, la Napoli aristocratica e decadente, e soprattutto di una visione femminile del vivere, dell’intreccio tutto “napoletano” tra amore, passione, orgoglio, senso del gioco (metaforico e reale), profonda e sempre visibile ricerca del bello, predilezione per le parole e, in contrasto, scarsa attenzione alla “cruda realtà”, è dedicato il bellissimo libro di Cristina Comencini[106]  Passioni di famiglia. Un breve cenno anche a Posillipo (Rizzoli, Milano, 1997), di Elisabetta Rasy [107], ambientato a Napoli e che di Napoli descrive un’altra immagine, quella del chiuso mondo aristocratico del dopoguerra. C’è nella protagonista, accanto al bisogno di ricostruire una memoria necessaria per la piena consapevolezza di sé, una sorta di nostalgia per un mondo perduto ma non rimpianto, collocato, appunto, negli anni della fanciullezza.

Ciò che accomuna tutte queste scrittrici è la rappresentazione dello spazio (della casa, del territorio, della città). All’interno dello scenario rievocato, corrisponde la rappresentazione di famiglie con le capofamiglia, di donne centrali nella scena, di soggetti forti femminili, mentre gli uomini, i padri, i compagni, i mariti, restano più o meno laterali, di sfondo o assenti. Accomuna tutte anche l’attenzione trepida con cui ci si guarda riprendere a vivere e la tenerezza mista, in molte di esse, a una sorta di competitività nei confronti della “madre”, delle “amiche”, delle donne, con le quali comunque le scrittrici (e le protagoniste delle storie) creano profonda comunanza e alle quali si rivolgono come punto di riferimento naturale. Le accomuna l’attenzione per certi modi di parlare e di muoversi dei  personaggi, le accomuna, quasi tutte, la descrizione dei cibi, della manifattura dei cibi, o la descrizione dei corpi, del vestirsi, delle attività quotidiane: i gesti assumono valore simbolico proprio perché strettamente materiali. Le accomuna il fatto che raccontano ciò che le colpisce: le vicende familiari o il dolore, il loro dolore per ciò che vedono, il dolore delle altre, degli altri, le inquietudini delle scoperte che solo il recupero della memoria permette di fare. Raccontando di madri, di famiglie, di amiche, di fatto esse raccontano l’infanzia, la città, il territorio, e, così facendo, chiudono il cerchio. Le accomuna, infine,  una scrittura bellissima, in molte di loro densa anche quando è nuda e precisa, ricca di metafore nuove, rotonda di immagini. La necessità, propria della poesia, di riappropriarsi della memoria personale raccontando una storia, vera quanto è vera la finzione narrativa, di fatto permette loro di costruirsi, o di sancire, una storia alle spalle e di offrire tradizione a tutte le altre. Utile, questa tradizione, anche per i lettori. E permette loro di nominarsi. Semplicemente. La libertà di pensiero e di parola, della quale anni fa aveva scritto Virginia, è stata raggiunta.

 

Napoli,1998

Anna Santoro

 

 

[1] Si veda, ora, nella bellissima traduzione di M. Antonietta Saracino, che è anche curatrice del volume : V. Woolf, Una stanza tutta per sé, Serie bilingue, Einaudi, Torino, 1995.

[2] Il che, annota saggiamente Virginia, è capitato di rado non solo tra le scrittrici ma anche fra gli scrittori.

[3] Definisco “campo d’ambiguità” quello spazio comune tra la tendenza all’omologazione e la necessità del dire e del dirsi. E’ lo spazio di intersezione tra due “sistemi”. Cfr. A. Santoro, Il Novecento, Antologia di scrittrici italiane del Primo Ventennio, Bulzoni, Roma, 1997,  pp. 22-25.

[4] I rimandi Bibliografici, riguardo la “lettura” oramai, per fortuna, sono tanti. Nella Bibliografia del mio Il Novecento (cit.), si troverà un panorama piuttosto ampio degli interventi maggiormente significativi. Qui  mi limito  a citare alcuni nomi di studiose che hanno lavorato sulle scrittrici italiane, con esiti particolarmente interessanti, come Barbarulli, Brandi, Livi,  Locatelli, Magli, Melandri, Scriboni, Violi, Zancan. E segnalo anche, tra le studiose italiane di altre letterature, per lo meno Frabotta, Fusini, Bono, Lamarra, Bompiani, Lanati, Rasy, o, tra le straniere che hanno offerto e continuano ad offrire un contributo di grande interesse per chiunque si occupi di scritture delle donne, per lo meno, Braidotti, Butler Cixous, De Lauretis, Irigaray, Rich, eccetera. Ai fini del nostro discorso sono inoltre da citare per lo meno le storiche come Buttafuoco, Rossi Doria,  Bock. Mi si permetta qui il rimando anche ai miei lavori. Tra questi, cfr. per lo meno: La lettura non è neutra, in A. Santoro (a cura di), Guida al Catalogo della scrittura femminile italiana a stampa presente nei fondi librari della Biblioteca Nazionale di Napoli (Napoli, 1990); Ricerca e lettura delle scritture delle donne in Italia: Questioni di metodo, in “Esperienze letterarie”, 1990, III; Scrittura delle differenza-lettura della differenza,  in Corona Daniela (a cura di), Donne e scrittura, Palermo, 1990; Ricerca e lettura... ; La lettrice, in “Esperienze Letterarie”, 1991, XVII; Il Novecento...cit..

[5] In questo senso l’operazione delle scrittrici è ancora più innovativa di quella di Manzoni (che introduce nella letteratura gli “umili” come protagonisti).

[6] Questo nodo molto interessante dà idea di quanti spunti di ricerca provengano dal ridisegnare la presenza culturale delle donne e le modalità di tale presenza, non solo per singole figure, ma soprattutto come scenario fatto di intrecci, relazioni, rispondenze.

[7] Come è mia consuetudine, ormai da anni, sono partita dai fondi librari della Biblioteca Nazionale di Napoli. Infatti, a parte qualche lavoro precedente, con la pubblicazione del Catalogo della scrittura femminile presente nei fondi librari della Biblioteca Nazionale di Napoli, dalle origini della stampa al 1860 (Napoli 1984,  poi, riveduto e ampliato, 1990) ho iniziato un coerente lavoro di ricerca sulle scritture delle donne,  partito dalla fine degli anni ’70. Colgo l’occasione per ringraziare, per la gentilezza e la disponibilità dimostratami nella fase di ricerca del presente lavoro, il Direttore Mauro Giancaspro, la dott. Nocera e il dott. Marcello e tutto il personale della sala Distribuzione, in particolare Ciro Andreozzi.

[8] Cfr. A. Santoro, Narrativa di fine Ottocento : le scrittrici e il pubblico, in “Italiana”, 1992, IV; id. Prefazione a Il Novecento...cit.

[9] Esattamente come i lettori si sentono gratificati grazie alla identificazione con il protagonista creato dagli scrittori.

[10] Nella tradizione culturale meridionale la figura delle donne è vissuta in modo ambiguo. Da una parte è innegabile la predilezione per il figlio maschio, l’esistenza del padre-padrone, del maschio prepotente, degli abusi sulle donne, ma è anche innegabile lo spazio enorme, nella cultura contadina, della figura della madre, della donna che organizza, provvede, risolve, c’è. E’ la padrona delle chiavi, decide dell’andamento delle cose, spesso è capofamiglia.

[11] Virginia, nel saggio sopra citato, si chiede, a questo proposito, perché gli stessi autori (poeti, scrittori) di indimenticabili personaggi femminili, nella vita reale trattino male le donne.

[12] Penso, a livello nazionale, a un’ampia schiera di scrittrici tra Ottocento e Novecento. Ma si badi : per “rivendicazioni”  non si intenda un linguaggio “rivendicativo”. Molte scrittrici, infatti, giunsero a opere di assoluta libertà. Tra queste: Sibilla Aleramo, Eva Cattermole Mancini (la Contessa Lara), Paola Drigo, Anna Franchi, Elda Gianelli, Maria Antonietta Torriani (la Marchesa Colombi), Anna Radius Zuccari (Neera). Cfr. gli studi della Arslan, della Pozzato, della Chemello, della Contorbi, della Melandri, della Cornetto, della Morandini, della Nozzoli. E rimando anche al mio Narratrici italiane dell’Ottocento, Federico, Napoli, 1987;  id, Letteratura femminile e mentalità nella Calabria dell’Ottocento, in “Atti del Convegno Ottocento Calabrese”, Cosenza 1987;  id., Il fatto è che ingrasso. Lettura di “Un matrimonio in provincia” della Marchesa Colombi, in Soggetto femminile e scienze umane, a cura di Adele Nunziante Cesaro e Simona Marino, Clueb, Bologna, 1993,  pp. 85-100; id.,  Narrativa di fine Ottocento, cit., 103-126 ; id., Il Novecento...cit.

[13] Sulla popolarità delle scrittrici, rimando ancora al mio Il Novecento..., cit.

[14] Questa storia  dovrebbe essere finalmente conosciuta dalle ragazze e dai ragazzi sin dalle aule scolastiche. Anzi, assieme al saggio di Virginia sopra citato, dovrebbe essere tra i “saperi indispensabili” oggi richiesti dal Ministero P.I.

[15]Questo punto è fondamentale nel dibattito che si va svolgendo oggi sulla scrittura di genere, ed è quello su cui le critiche femministe lavorano. Del resto non è un caso che lo stesso saggio di Virginia Woolf (citato), esempio di scrittura che conserva l’unità testa-corpo-affettività, sia dei primi anni del 900, cioè appartenga ad un’epoca che vide in tutta la cultura occidentale, sia pure con forti differenze, prendere corpo un cosciente pensiero femminista. Il modo del tutto originale che hanno le donne di affrontare la saggistica (ma anche per le studiose vale il discorso del “campo di ambiguità” ), ad esempio, conservando l’interità del soggetto, è elemento, tra i più affascinanti,  presente in  molte scrittrici qui presentate.

[16]  “The Revolution”  fu fondato nel 1868 da Susan B. Anthony e Elisabeth Cady Stanton. Cfr. A. Rossi Doria, La libertà delle donne, Rosenberg e Sellier, Torino, 1990,  p. 277.

[17] Questi punti di battaglia erano portati avanti anche dalla Stanton nel giornale sopra citato. Il che è una ulteriore dimostrazione del rapporto tra i movimenti delle donne a livello internazionale.

[18] Per la citazione di Aurelia, tratta dal suo Questioni sociali (cit.), cfr. A. Santoro, Intellettuali sulla scena. In “Leggendaria” 1994, Novembre-Dicembre.

[19] Grazia curerà anche la pubblicazione di alcune opere di sua madre. Cfr. Laura Beatrice Oliva Mancini, Cristofaro Colombo- Azione drammatica in versi. Prefazione di G. P.M., Tip. Italiana dei Sordomuti, Genova, 1892.

[20] Nel mio Narratrici italiane dell'800, cit.,  ho pubblicato brani di questo racconto lun­go.

[21] Impressioni e ricordi inaugura una Collana di Scrittrici, diretta dalla sottoscritta, a cura dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici. La stampa è prevista per novembre 1999. Seguiranno, tra l’altro: Questioni sociali di Aurelia Folliero De Luna Cimino e Antiche lotte, speranze nuove di Fanny Salazar Zampini.

[22] Su questo, cfr. A. Santoro, Prefazione a Il Novecento...cit.

[23] Nei primi anni ’80, Fanny si trasferisce a Roma per cercare lavoro. Già nel 79 Matilde Serao la invita a collaborare al “Giornale di Napoli”. Fanny ha mille impedimenti di carattere familiare e la collaborazione sarà saltuaria, ma da allora tra Matilde e Fanny si stringe una importante amicizia.

[24] La sede del giorna­le divie­ne salotto intellettuale, frequentato anche dal giovane Croce, e punto di riferimento di donne che a Fanny raccontano le proprie storie di emarginazione, di violenza, di povertà, di ingiustizie subite. Di Croce, scrive Fanny : "un mio giova­ne amico.... dotto e modesto cultore di studi storici..”  in Antiche lotte, speranze nuove, cit.

[25] Nella Prefazione a Olivia Agresti Rossetti, del 1922, Fanny ricorda che “vent’anni or sono”  aveva fondato “The Italian Review” , rivista di politica, letteratura, scienza, arte, archeologia, industria, agricoltura,  con diffusione in Inghilterra e negli Stati Uniti. Il giornale venne pubblicato dal dicembre 1900 a tutto il 1902.

[26]Cfr. il bellissimo articolo “Difendiamoci !” (in “La rassegna degli interessi femminili”, cit..) che rivendica l’importanza di Eleonora Pimentel Fonseca e Luigia Sanfelice, contro i gesuiti, le ipocrisie, la maldicenza, l’ignoranza.

[27] Questo intervento, insieme a quello di altre scrittrici, sarà incluso in : La Donna italiana descritta da scrittrici italiane in una serie di conferenze all’esposizione Beatrice di Firenze, Civelli, Firenze, 1890.

[28] Conferenza tenuta a Napoli nel 1889. Con essa abbiamo il debutto di Fanny come oratrice, e lei stessa racconta il panico (e la forza per vincerlo) in Antiche lotte..., cit.

[29] Conferenza tenuta a Reggio Calabria nel 1896, pubblicata con Prefazione di F. Cavallotti (Tip. Messaggi, Treviglio, 1896).

[30] Conferenza tenuta in Calabria nel 1896, pubblicata da Pierro e Veraldi, a Napoli, nel 1896.

[31] Conferenza tenuta a Roma, all’Associazione della stampa, nel 1901 e pubblicata dall’Officina Poligrafica Romana, nel 1902.

[32] Per lo meno dalla Mozzoni, molte furono le donne, femministe suffragiste, donne politicamente impegnate o scrittrici, che osarono esporsi al pubblico con le conferenze. Cfr. Michela De Giorgio, Le italiane dall’Unità ad oggi, Laterza, Bari, 1992,  specie pp. 397 e seg.

[33] Le conferenze sono a pagamento e tra le motivazioni che spingono Fanny c’è quella importantissima delle ristrettezze economiche.  Si noti che una delle protagoniste di Cavalieri moderni, è una giovane donna, separata, intellettuale, che mantiene i figli facendo conferenze e collaborando ai giornali.

[34] La Commissione Municipale blocca a lungo la pubblicazione del suo libro sull’igiene, perché lo giudica "non spiri­tuale": Fanny, infatti, ha attribuito alla  fisicità quanto in genere era attribuito alla morale. E' una questione che si sostanzia proprio nel linguaggio: ad esempio, la Commissione imputa come colpa grave a Fanny, di aver usato il termine “sensazioni” e non "sentimenti".

[35] Si pensi alle nevrotiche protagoniste di tanti romanzi, alle pallide e svenevoli creature dalle vene pulsanti e dagli occhi cerchiati, si pensi a D’Annunzio. Le donne sono pallide, ribatte Fanny, perché portano busti troppo stretti, non curano il corpo, non fanno ginnastica,  non respirano, non escono in strada liberamente.

[36] Nel mio Narratrici dell’Ottocento, cit., ho pubblicato stralci del romanzo.

[37] Intervento incluso in : La Donna italiana descritta ... cit..  Maria, come altre scrittrici dell’epoca,  partecipa infatti, nel 1890, al Convegno di Firenze “La donna italiana”.

[38] In Pagine di Biblioteca (Leggendaria, 1993, Luglio-Agosto), ho pubblicato, assieme ai testi di altre scrittrici, una di queste bellissime Leggende.

[39] Così come è accaduto, sia pure con diverse modalità, ad autrici come Grazia Deledda o Ada Negri : la prima ottenne il Nobel nel 1926 e la seconda fu nominata Accademica d’Italia nel 1940.

[40] Anche Riccardo Joanna, il giornalista protagonista di I capelli di Sansone, quando scrive, butta di getto nell’articolo il suo cuore, i suoi sentimenti, le sue passioni e non si ferma a correggere.

[41] Sui suicidi delle donne, ripresi dalla letteratura,  cfr. la Prefazione al mio Il Novecento, op. cit.

[42] Ad esempio, il moto di paura che ha Luisella Fragalà quando nota quel poveraccio (e mascalzone) dell’assistito alla sua festa è già l’anticipazione di quello che accadrà. Anche chi legge annota la presenza inquietante perché Matilde, appunto con tecnica di anticipazione, crea nei suoi riguardi una suggestione che sarà poi confermata dai fatti.

[43] Non bisogna aspettare Edoardo per avere personaggi come il vecchio Marchese di Formosa che con una statua di Cristo si rapporta come con una persona con la quale scambiare dispetti e prove di forza: fa spegnere l'olio avanti al quadro perché non gli ha fatto la grazia (cioè quella di vincere al Lotto) o addirittura lo annega in un pozzo.  E  ricordiamo anche il padre del protagonista di Ricomincio da tre di  Massimo Troisi.

[44] L’operosità e la bravura dei meridionali avevano colpito anche Grazia Mancini, come ci racconta nel suo Diario.

[45] L’assistito è chi (si spaccia per chi) vede gli spiriti, parla con loro e da loro riceve i numeri che lui stesso però non può giocare. Così vende, sempre con un fare misterioso e sfuggente, le indicazioni degli spiriti ai patiti del lotto.

[46] Anche ne Il paese di Cuccagna gli uomini sono o deboli come Cesare, o avidi come Don Gennaro, o pazzi come il Marchese. Le donne, Luisella, Carmela, Biancamaria, sono sì vittime del Potere pubblico (maschile) e privato (padre, marito, amante), ma, a conti fatti, esse agiscono, si prendono cura, operano, pensano, soffrono, fanno e qualche volta rimediano. Sono loro i soggetti e attorno, al fondo, di lato, ci sono i personaggi maschili. Ed è così anche nella realtà della cultura meridionale, ed è Matilde a notarlo.

[47] Il Lotto e lo Stato sono i nemici di Cesare, di Luisella, di Biancamaria, e Matilde lo sottolinea quando racconta la ricerca del danaro da parte di Don Crescenzo, il tenutario del Lotto, che parrebbe in fondo persona innocente ma che alla fine comprende (e Matilde lo svela) che è giusto il suo castigo perché lui ha tenuto “bottega di quell’infamità”.  E c’è di più : la vicenda dell’usuraia che preferisce prestare cose , cioè stoffa per il vestito e non soldi per comprare la stoffa, mostra come, sulla base di bisogni o di desideri di gente comune (che però costituiscono anche i primi segni della “società dei consumi”),  prosperi l’usura e come la camorra allarghi il giro degli affari, ponendosi entrambe come (illusorio e ingannevole) riferimento per quanti senza queste “istituzioni” non saprebbero a chi rivolgersi. Anche la cultura del  “campare alla giornata”, a leggere le pagine di Matilde, in qualche modo diviene più chiara. Non solo tutte queste persone vivono giorno per giorno la ricerca del danaro, ma la vicenda dell’usuraia, che dà ogni giorno un piatto di pasta al mendicante di turno e non denaro, è illuminante : lei soddisfa la pietà che pure avverte nei confronti del disgraziato, ma non la confonde con il suo “lavoro” e conferma in lui l’abitudine di affidarsi alla sorte giorno per giorno.

[48] A fermare Checchina è la paura di come al portiere potrà apparire, è la paura che il suo “essere” dipenda, sia fatto,  dallo sguardo di un altro. Il  peso dello sguardo dell’altro sul comportamento femminile, sulla sua coscienza, sulla sua autonomia, è svelato da tutte le scrittrici che operarono in Italia tra la fine dell’Ottocento e i primi del ‘900. Si pensi alla  Marchesa Colombi e alla sua nitidissima analisi, in Un matrimonio in provincia (Cfr. A. Santoro, Il fatto è che ingrasso, cit.). Penso anche a Fanny Salazar e a tante altre, che hanno  ammonito le donne a non guardarsi con lo sguardo dell’altro. Allo stesso modo,  lo svelamento del peso paralizzante dei valori tradizionali viene portato avanti anche da altre scrittrici dell’800. Penso, ad es., a Rosalia Piatti, Luisa Saredo, Maria Savy Lopez, Elda Gianelli.

[49]Anche Riccardo Joanna ama dare di sé l’immagine di bell’intellettuale, immerso nei propri pensieri, pallido e altero.

[50]Anna si consuma d’amore per Cesare e pensa che la morte sia la cosa migliore. Leggiamo: “Non vi è propriamente una malattia letale che si chiami passione: i medici non l’hanno mai trovata facendo l’autopsia del cadavere. Ma la passione è così sottile ingannatrice, che ella è in fondo di tutte le malattie mortali.  Essa è nella tisi che fa agonizzare per anni coloro che amarono troppo, che non furono abbastanza amati ; essa è nei mali del cuore, in quel cuore che dilata sotto l’onda dell’emozione passionale, che si serra nella disperazione ; essa è nelle lunghe anemie...nelle nevrosi...” (in Addio amore, cit., p.125) . Lo spleen era stato duramente attaccato da Fanny. Sono interessanti le notazioni, a questo proposito, di Susan Sontag,  in  Malattia come metafora, Einaudi, Torino, 1989.

[51] Il Superuomo fu portata al successo dal cantante Nicola Maldacea: “Signori, io non son uomo, né sono gentiluomo / né sono galantuomo, io sono un superuomo ! / Perché nel protoplasma del padre mio che fu / del tipo antropologico v’era qualcosa in più”.

[52]Si ricordi che Fanny Salazar, amica di Matilde, aveva avuto espressioni forti contro una certa tipologia di letteratura, deformatrice della mentalità e dei comportamenti delle ragazze.

[53]Un elemento comune in tutte queste storie è la “noia” : viene rappresentato uno scenario dove le donne (ma anche gli uomini) si annoiano quasi sempre. E’ immediata la riflessione riguardo al fatto che Matilde, sempre presa dal lavoro, certo non si annoiava. Dalle sue lettere inoltre sappiamo che disprezzava un poco quel bel mondo con il quale comunque aveva relazione per la sua professione. Mi pare dunque sia lecito pensare a uno  svelamento della vacuità della mentalità del mondo borghese-aristocratico radicalizzata dalla letteratura nell’immaginario comune.

[54] Lo svelamento della ipocrisia riguardo al matrimonio, già presente in Matilde ne La virtù di Checchina, è un tema dominante in tanta letteratura femminile dell’800. Cfr. A. Santoro, Narratrici...., cit.

[55] In Dopo il perdono (cit.) Marco abbandona l’amante, convinto che la passione per entrambi sia spenta. Ma aggiunge (nella lettera che le scrive) che, nel caso lei lo amasse, lui si ucciderebbe per la propria “inferiorità morale”. Anche lui ritiene che solo le anime sensibili e morali possano amare. Sull’amore come “capacità femminile” cfr. A. Santoro, Il fatto è che ingrasso, cit.

[56] Certo Marco, protagonista di Dopo il perdono,  è ineffabile, come lo erano i personaggi maschili di Carola Prosperi e di altre (cfr. A. Santoro, Il Novecento, cit.). Marco, infatti, parlando di Vittoria, la moglie tradita, e lamentandosi del fatto che lei è sempre triste e non si accontenta del bene che lui le vuole (ma non l’ama), a sua madre che gli chiede cosa Vittoria dovrebbe fare, risponde: “Amarmi per me, madre, non per sé : tutto dare e nulla chiedere : esser felice che un uomo...trovasse in lei la pace di un affetto tranquillo: essere la serenità istessa: essere, infine, la moglie cristiana...” (p.240).

[57] Maria e Marco, in Dopo il perdono e Castigo,  hanno “rotto le regole”  che essi stessi pretendono però siano osservate dagli altri, e questo perché essi sarebbero “speciali”.

[58]Pancrazi fu forse il primo a segnalare la compiutezza dei racconti di Matilde, paragonandola a Checov o alla Mansfield. Cfr. P. Pancrazi, Introduzione a M. Serao, Milano, 1944-46, p. 673.

[59] Elemento curioso di questi racconti (ma anche altrove, in Matilde e in qualche altra scrittrice)  è la frequente descrizione di uomini che piangono molto. E’ un topos letterario? Nato come e perché? Era una realtà che gli uomini piangessero tanto o è  Matilde a badarvi e a trovare giusto scriverne? Era maggiore sensibilità delle donne di ieri a svelare l’altra faccia della maschilità o esse stesse avevano ancora un immagine dell’uomo non del tutto segnata da quella maschera di machismo a cui contribuì molto la società moderna e specie il fascismo che radicalizzò ancora di più i ruoli? Insomma piangevano gli uomini più di ora senza vergognarsene o le donne erano più attente e pensavano fosse giusto raccontarlo? Nella tradizione meridionale, molte canzoni a soggetto maschile rappresentano lacrime d’amore.

[60]Abbiamo segnalato in Matilde l’uso di  vocaboli logori, le sgrammaticature, le ridondanze, ma vanno sottolineate anche certe suggestioni alla Ortese, come quando, ad esempio, scrive:  “la sua bellezzina bionda e pallidetta”.

[61] Matilde è “la prima vera giornalista italiana”, sottolinea la De Giorgio (in Le italiane..., cit., p. 490), e certamente quella meglio pagata, quella cioè che, con il suo lavoro, guadagna la rispettabile cifra di 700 lire al mese (nel 1882) (ivi, p. 393).

[62] Per es. Matilde per smitizzare i duelli, ne elenca i costi : se si è feriti, se si ferisce, se la ferita è grave.

[63] Si badi a questa espressione, perché, lo abbiamo già notato nei romanzi, Matilde rappresenta sempre i poveri di Napoli come lavoratori.

[64] Col nome di Paolo Joanna, a volte Matilde firma sui giornali.

[65] Matilde mostra anche come i mezzi di comunicazione inventino politici e mode letterarie oltre che di costume.

[66] Su questo, a livello nazionale, cfr. il mio Il Novecento.

[67] Entrambe queste scrittrici sono presenti nel mio Il Novecento ...( cit.) dal quale riprendo alcune notazioni, e al quale rimando per una trattazione più ampia e per i brani antologizzati. .

[68] Come scrive Clelia nella Prefazione alla seconda edizione della raccolta La vita in due.

[69] Camminare nei desideri significa esaudire di volta in volta il desiderio e andare avanti nei percorsi di vita. Nella scrittura significa  prendere la parola, e poi elaborarla, e successivamente usarla con assoluta libertà. Su questo cfr. la Prefazione al mio Il Novecento...cit.

[70] Per quel che riguarda il mondo anglo americano, cfr. A. Rossi Doria, La libertà delle donne. cit. Per l’Italia, cfr. Franca Pieroni Bortolotti, Alle origini del movimento femminile in Italia (1848-1892), Einaudi, Torino 1963. Notizie utili anche in : Michela De Giorgi, Le italiane...cit.

[71] Intanto, per lo meno, cfr. C. Salaris, Le futuriste. Donne e letterate d’avanguardia in Italia (1909-1944),  Milano, 1982; Michela De Giorgi, Le italiane...cit.

[72] E’ interessante ricordare che anche Maria Messina, con ben altra maestria, scrive una storia analoga (Il prete nuovo), seppure dai risvolti molto differenti.

[73] A leggere certe prove di Giovanna, viene in mente L’uomo senza qualità di Musil, non per l’ambientazione né per il più piccolo paragone riguardo alla qualità della scrittura, ma per il rapporto uomo-donna e per la rappresentazione dell’immagine di una scrittrice, di una intellettuale. L’uomo senza qualità, pubblicato in tre parti, dal 1930 al 1942, fu tradotto in Italia solo nel 1962.

[74] Questioni già affrontate e denunciate da Anna Franchi, Fanny Salazar, Eva Cattermole, Sibilla Aleramo e tante altre scrittrici, le quali, tutte insieme, hanno creato una tradizione letteraria (che rispecchia le esperienze della vita femminile), cancellata, sino ad oggi,  dalla memoria storica.

[75] Ma Pitigrilli (si pensi a Mammiferi di lusso, del 1920, o a Cocaina, del 1921), Zuccoli e altri scrittori del tempo così scrivevano. Di questi, e di altri, sono frequenti le note antifemministe e antiscrittrici: nel 1911, Zuccoli scrive del “pericolo rosa” e del “gaietto sciame”. Cfr. M. De Giorgio, Le italiane..., cit. p. 396.

[76] Questo provincialismo della editoria napoletana, che, a parte luminose eccezioni, dura tuttora, è di antica data. Per quel che riguarda la fine dell’Ottocento, cfr. Anna Santoro,  Narrativa di fine Ottocento, cit.

[77] Questo fenomeno di donne studiose di donne è fenomeno nazionale che ho segnalato già nella Prefazione al mio Il Novecento...cit.

[78] Come fa la Macciocchi che liquida Bice come “volenterosa studiosa” che però non comprende la natura malvagia di Tria. Cfr. Maria Antonietta Macciocchi, L’amante della rivoluzione,  Mondadori, Milano, 1998.

[79] Molto critica nei confronti della presenza dei francesi a Napoli è anche Laura Valente in Una fiera ed eloquente protesta di Giuseppe Poerio contro le pretese francesi di aver civilizzato l’Italia meridionale (Estratto da “La rassegna Storica del Risorgimento”. A.XXII, Fasc. III, Marzo 1935) e in Gioacchino Murat e l’Italia meridionale (Biblioteca di cultura storica, Einaudi, Torino, 1941).

[80] Il frontespizio è s.d.

[81] Il lavoro porta la dedica “A mio padre”. Non sono riuscita, per ora, a trovare elementi certi per stabilire se si tratti di Amedeo Bordiga.

[82] Per esempio, Amalia si chiede come pensare tanta immoralità in una madre di 18 figli!

[83] Sul rapporto tra Morelli e il movimento delle donne, cfr. F. Pieroni Bortolotti, cit. ; Michela De Giorgio, cit.

[84] Dedicato alla sorella Irene Scodnik Imbriani Poerio.

[85] Su questo, a livello internazionale, cfr. A. Rossi Doria, cit.

[86] Figlia, credo, della poeta M. Giuseppa Guacci Nobile, Emilia, docente di filosofia,  è autrice di molti testi.

[87] Pedagogista, fu la prima donna in Italia, nel 1932, a reggere un Istituto universitario, la Scuola femminile di Suor Orsola Benincasa,  fondata a Napoli  nel 1891 dalla principessa Adelaide Pignatelli.

[88] Nel 1930 è “l’unica italiana titolare di una cattedra di filosofia” : cfr. M. De Giorgio, cit., p. 470.

[89] Devo a Rino De Martino, attore e cantante, alcune informazioni e materiali di consultazioni per ciò che riguarda queste notizie. Ma cfr. anche:  Yvonne Carbonaro, Le donne di Napoli, Tascabili Newton, Napoli, 1997.

[90] Vorrei anche segnalare che mandoliniste famose del 900 furono: Maria Sciutano e Maria  Calace (ditta ancora attiva con Lello), e che la Casa editrice Bideri, fu portata avanti dal  1930 da una donna : Valentina Bideri.

[91] Nel reparto della Lucchesi Palli della Nazionale di Napoli, ma anche nella Biblioteca del Conservatorio, abbiamo un numero decisamente alto di autrici di canzoni : musica e parole.

[92] Cfr.: Assunta Martino, Anne Charlotte Leffler. Biographie de Sophie Kowalewsky, in A. Santoro (a cura), Guida al Catalogo della scrittura femminile... cit.

[93] A.C. Leffler, duchessa di Caianiello, Souvenirs d’enfance de Sophie Kowalewsky..., Librairie Hachette et C.ie, Paris, 1895. Cfr. il saggio, sopra citato, di Assunta Martino.

[94] Anche Clelia Pellicano ha scritto, sul medesimo argomento, L’infanticida. Cfr. il mio Il Novecento, cit.

[95] Nella Presentazione, Filippo Marinetti inquadra l’arte di Benedetta all’interno della produzione femminile e scrive : “tra le scrittrici più geniali Ada Negri, la contessa di Nouille e Colette sono autobiografiche. Giorgio Sand Rachilde Matilde Serao Annie Vivanti Grazia Deledda hanno spesso tentato di sconfinare fuori dal ricordo e dal diario. Benedetta suscita davanti ai sensi del lettore un’allucinante visione di mondi....”. Questo punto è interessante e impone, in altra sede, un discorso lungo su Marinetti, sul suo rapporto con le donne, sulla poesia del Futurismo. In quanto ad Orestano, nella sua interessante Prefazione  riconosce come Benedetta abbia non solo conservato una sua autenticità e identità, ma addirittura come abbia influito sul Futurismo e su Marinetti. Sottolinea poi le onomatopee, le soluzioni grafiche di Benedetta e ammira la sua capacità di trasferire il concreto in simbolico. Anche Oristano, infine, tratta del rapporto istinto-istruzione e della differenza uomo-donna.

[96] “...la razionalità nel caos della vita serve ad andare da un posto a un altro,  ma se non onori i posti allora ti perdi e non ha senso il tragitto”. La citazione è tratta dalla relazione di Carla Locatelli sulla Cixous al Seminario “Corpi e immagini : letteratura, cinema, teatro. Scritture comparate al femminile, Orvieto, 20-22 novembre 1998. Carla Locatelli cita Adrienne Rich.

[97]Invisibilità durata tanti anni e dagli anni 70 indagata.

[98]Virginia Woolf, in Una stanza tutta per sé, cit.,  tocca più di una volta questo nodo. A parte le notazioni sulla “sorella di Shakespeare”, si leggano, ad esempio, i seguenti passi: “...qualsiasi donna che fosse nata nel sedicesimo secolo, con un grande talento, sarebbe sicuramente impazzita...” (p.103); “...Perché i capolavori non sono nascite isolate e solitarie: essi sono il risultato di molti anni di pensare in comune...” (p.133-4); “Il peso, il movimento, il ritmo, di una mente maschile, sono troppo diversi dai suoi,  perché lei possa trarne con successo qualcosa di consistente (...) E così, poiché libertà e pienezza di espressione sono l’essenza dell’arte, una tale mancanza di tradizione, una tale scarsità e inadeguatezza di strumenti deve avere avuto una enorme influenza sulla scrittura femminile” (p. 155-7).

[99] “...occorre riflettere di più su un fatto ovvio, ma troppo trascurato : il mondo è uno,  ma è abitato da due sessi, diversi non solo per la biologia, ma anche per le esperienze. Se leggiamo anche per comprendere le nostre vite, allora avere a disposizione solo testi scritti da uomini rende noi tutti -non solo le donne, ma anche gli uomini- come ciechi di un occhio” (Marie Luise Wandruszka (a cura di), Prefazione a : Scrivere il mondo, Rosenberg e Sellier, Torino, 1996.

[100] Nata a Napoli, Fabrizia Ramondino, dopo aver soggiornato in Spagna, Francia, Germania, è tornata nella sua città dal 1966. Oggi vive e lavora a Itri.

[101] Il romanzo è stato portato sugli schermi, con la regia di Mario Martone.

[102] Eppure, la particolarità dello sguardo sulla “città reclusorio”, tra l’altro abitata da persone tutte brutte, dal dialetto osceno, dalle movenze sguaiate, mi porta, a volte, ad immaginare un autore, un intellettuale napoletano che, giustamente stanco della Napoli-cartolina, abbia voluto negare l’immagine di repertorio, dare faccia all’altra Napoli, con una operazione che già da anni si va facendo da alcuni. Per far questo, l’ipotetico autore si sarebbe finto donna, appropriandosi di modi e tematiche che alle donne sono care. Lo stesso morboso e fisico rapporto tra la protagonista e la madre e la fisicità forte del linguaggio che certamente appartiene alla nostra cultura meridionale e, come sensibilità e pratica, alle donne, mi sembrano, a volte, che qui vengano giocate e abilmente dosate in un gioco che, se fosse vera la mia ipotesi, sarebbe davvero straordinario.

[103] Nata a Castellammare di Stabia (Napoli), Carmen Covito ha vissuto a Madrid, Tokyo, Brescia. Ora vive e lavora a Milano. Oltre ai romanzi, ha pubblicato, assieme ad Aldo Busi, la traduzione di Il Novellino (Rizzoli Bur, Milano, 1992), del Cortigiano (Rizzoli, Milano, 1993) e de La lettera scarlatta (Mondadori, Milano, 1995). Ha inoltre tradotto : Claudine a scuola (Frassinelli 1996). Carmen è, come afferma lei stessa, la prima scrittrice italiana ad avere un “sito tutto per sé” su Internet.

[104] Maria Natale Orsini, giornalista, vive a Torre Annunziata.

[105] Napoletana, militante comunista, impegnata nel Movimento di Liberazione delle Donne, Luciana Viviana è figlia di Raffaele Viviani.

[106] Cristina Comencini, romana ma con radici partenopee, scrittrice e regista, aveva già pubblicato Le pagine strappate (Feltrinelli, Milano, 1991). Dopo Passioni di famiglia, ha pubblicato Il cappotto del Turco (Feltrinelli, Milano, 1997).

[107] Elisabetta Rasy, romana ma anche lei con radici partenopee, è giornalista e scrittrice. Della sua ricca produzione (romanzi, racconti, saggi), segnalo: La lingua della nutrice (Ed. delle donne, Roma, 1978) e Le donne e la letteratura (Editori Riuniti, Roma, 1984).

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